di ALESSANDRO NIRONI FERRARONI
23/4/2020 Quanto tempo occorrerà ancora attendere per una memoria condivisa? Dopo aver letto le reazioni alla mia iniziativa di fine anno per il prossimo 25 aprile, direi che, certamente, 75 anni non sono stati sufficienti. Un’attesa eterna per una qualsiasi nazione; un’attesa che coloro che si sentono padroni delle varie memorie finiranno per perpetuare all’infinito, ognuno rivendicando la necessaria ed assoluta prevalenza sull’altro. Due punti fermi non si incontreranno mai.
La richiesta rivolta al primo cittadino di Scandiano di venire a pregare sulla tomba di don Carlo Terenziani – “scelto” non a caso, non per confusa ignoranza di altre vittime ma poiché doppiamente Simbolo in quanto sacerdote scandianese trucidato a guerra finita, in odio alla Fede e alla Chiesa – è stata subito respinta al mittente, svilendo con studiata consapevolezza l’evidentemente pericoloso, per i consolidati equilibri, messaggio di riappacificazione che avevo tentato di lanciare.
La manifestazione d’intenti resa dal presidente provinciale dell’ANPI, giusto all’indomani della pubblicazione della mia lettera aperta, di sostenere una iniziativa pubblica per un ulteriore approfondimento anche sulle tante atrocità che hanno segnato il territorio scandianese è inesorabilmente rimasta lettera morta.
Non solo quindi l’ostentato rifiuto di venire innanzi al sacello del Martire, ma soprattutto una generale e sgarbata porta in faccia ad ogni ipotesi di riconciliazione (“non è possibile l’unità unica, perché le memorie sono diverse”) hanno confermato la volontà di perpetuare un cammino autoreferenziale, asservito non già al rispetto delle istituzioni quanto piuttosto a fornire dignità ad un orientamento post ideologico sul quale poggiano le antiche basi del potere di governo locale.
L’ho scritto pubblicamente il 4 gennaio e lo farò: se questa è la vostra reazione alla mia mano tesa, cioè uno schiaffo, se questa è la vostra idea di nazione, cioè sostanzialmente un partito o quello che ne resta, se questo è il vostro modo di rispettare le istituzioni, cioè di gestirle come casa privata in cui occorre chiedere permesso per entrare, vi ritroverete a celebrare da soli. Così sarà, a prescindere dalla pandemia.
Sono stato accusato di essere un traditore e persino offeso sul piano personale. Non ho mai commentato le accuse, pur quando scomposte, rispettandole, non ho perseguito le offese, pur avendolo giuridicamente potuto fare. Non mi interessava, non mi interessa.
Ho ricevuto e tratto un chiaro insegnamento dai pesantissimi sacrifici, personali ed economici, che nei decenni la coerenza ha determinato per la mia famiglia: dall’azionismo cattolico, al servizio legionario in Spagna e Russia, passando per il rinnovo del giuramento di fedeltà al Re nella desolazione di un campo di internamento militare tedesco, rifiutando la RSI; esperienze così diverse tra loro e persino assai confliggenti, fascismo e antifascismo, semplificando in modo davvero becero.
Quale comune insegnamento?
Quello della fedeltà ai valori della Tradizione e della conseguente lotta all’ideologia comunista nonché ad ogni suo derivato contemporaneo.
Ma occorre combattere senza odiare, senza ripiegarsi in se stessi, lontani dal reducismo, lasciando ad altri le patenti di ortodossia e di superiorità morale, tutto questo nell’interesse esclusivo “degaulliano” della nazione e delle istituzioni.
Quando entrai per la prima volta nella federazione di Via Roma, era il 1999 non certo il 2019, ritrovai negli ammonimenti di un ragazzo, ora dedito all’agricoltura, proprio questo pensiero; esattamente questo carattere distintivo della nostra visione di mondo, della nostra comunità militante.
Ricordo che, durante i due anni nei quali ho ricoperto la carica di rappresentante di istituto del Liceo classico-scientifico “L. Ariosto – L. Spallanzani” per il Nucleo studentesco-Fronte studentesco (2000-2002), eravamo soliti distribuire, in prossimità del 25 aprile, in Piazzetta Pignedoli, uno tra i più significativi volantini dei tantissimi che all’epoca sfornavamo con il ciclostile.
Il volantino riportava stralci di lettere di due condannati a morte: un partigiano ed un milite della RSI.
Entrambi, con parole diverse, pregavano i posteri che il loro sangue non avesse a scorrere invano e che, per questo, la riappacificazione dovesse essere perseguita ad ogni costo. Il volantino terminava con la frase stampata a caratteri cubitali “per non odiare più”.
Non ho e non ho mai avuto la presunzione di avere fatto la cosa giusta in assoluto, ma vivo nella serena tranquillità di aver cercato di tracciare, con non poco travaglio, attraverso la mia azione, un’ulteriore prospettiva concreta agli insegnamenti cattolici con i quali sono cresciuto e alle idee che hanno animato sin dai primi passi la mia azione politica.
Arriverà un giorno in cui tutti capiremo che la nostra Nazione e le istituzioni che la rappresentano si devono semplicemente servire e rispettare, come ad esempio fanno quotidianamente i nostri militari, pure il 25 aprile; sarà il giorno in cui avremo elaborato una memoria condivisa che non potrà che essere quella fondata sulla verità. Un giorno purtroppo ancora lontano, per arrivare al quale mi spenderò sempre.