26/4/2023 – Oggi, giovedi 26 aprile, debutto in pubblico del libro “Ventitrè giorni” che Giuseppe Pagliani, avvocato ed esponente di Forza Italia e del centro destra a Reggio, ha dedicato agli oltre 7 anni di persecuzione giudiziaria subita nel processo Aemilia, affrontata a testa alta e conclusa con un’assoluzione totale quasi un anno fa in Cassazione e poi col risarcimento (dal valore soprattutto simbolico) riconosciuto dallo Stato per l’ingiusta detenzione subita nell’inverno 2015: i ventitrè giorni di carcere, appunto, che danno il titolo al libro al quale hanno contribuito insieme all’autore giuristi, politici e giornalisti. La prefazione è di Vittorio Feltri. La presentazione avviene nel salone dell’hotel Mercure Astoria di Reggio Emilia (via Nobili 2) con inizio alle ore 20.45. Con Giuseppe Pagliani dialogano i giornalisti Roberto Caroli e Pierluigi Ghiggini. Presenta l’incontro Valeria Braglia, che ha coordinato la parte editoriale.
Di seguito pubblichiamo la prefazione di Vittorio Feltri a “Ventitrè giorni”.
DI VITTORIO FELTRI
La reputazione è il bene più prezioso che ci sia. Poter camminare con la fronte alta (magari dando un occhio fuggevole alle buche sul marciapiede), senza essere schivati dai concittadini come lebbrosi pronti a contagiare il prossimo, è il vero godimento della libertà.
Brutto è restare chiusi in cella, ovvio, specie se non hai potuto difenderti, essendo in custodia cautelare, e sai che i tuoi cari patiscono, mentre i vicini, con falsa condiscendenza, sbirciano le smorfie di sofferenza di moglie e madre.
Ma almeno in carcere nessuno ti giudica, trovi persino sguardi umani.
Peggiore è venire liberati, con sentenza del Tribunale del Riesame che smonta le accuse, e ritrovarsi macchiati con inchiostro indelebile quale corrotto o addirittura mafioso per l’insistenza nello sputtanamento da parte dei PM ben supportati dai media locali.
È il filo spinato invisibile del pregiudizio, che inesorabilmente ingabbia chi sia stato ammanettato di notte a favore di telecamera. Specie se il soggetto inchiavardato è un personaggio politico, e l’accusa è infamante, sei trattato dagli sguardi della brava gente come un morto che provvisoriamente cammina, ma sarebbe più prudente blindarlo.
C’è chi si nasconde per preservare parenti e amici, c’è chi cede psicologicamente e sprofonda nel buio interiore. Ma accidenti quanta dignità, che coraggio di combattente, ho ammirato in Giuseppe Pagliani, protagonista di questa storia.
La differenza, rispetto a mille vicende analoghe, è che alla fine ha vinto non solo in Tribunale e in Cassazione – com’era scontato, visto lo sconcertante travisamento di fatti e di parole operato dall’accusa – ma anche perché nell’immagine pubblica, tra la gente comune di qualunque opinione politica, è balzato fuori dalla tempesta come un gigante.
Il bilancio del male subito da Pagliani e dalla sua famiglia resta però terribile. Sul quaderno dei torti subiti ci sono 23 giorni di carcerazione ingiustificata e ingiustificabile, conferenze stampa à gogo di procuratori e sostituti procuratori dove l’onorabilità di un presunto innocente era scuoiata con lo scortichino per carogne; tutti erano autorizzati a tirargli in faccia un mulinello di cazzotti senza pericolo che ne fosse ripagato con la stessa vigliacca moneta; nessuna facoltà di replica essendo l’incriminato murato
dietro sbarre di ferro; l’ostinazione dei titolari dell’accusa nell’ignorare le argomentazioni e le evidenze portate alla luce dalla difesa, ma soprattutto nel gettare alle ortiche le sentenze e le motivazioni assolutorie dei giudici.
Mi permetto di riassumere la vicenda, sottolineando che però il finale non è ancora scritto. Lo sarà, e lo celebreremo quale passo avanti di civiltà, se vedremo tradotti in articoli di legge, applicati e non interpretati, i propositi del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, uomo retto e giurista eccelso, perché sia garantito il rispetto della dignità personale dell’indagato, che va risolutamente preservato dall’esibizione spudorata di accuse prima che il Tribunale si sia espresso con un giudizio.
L’esempio cui conformarsi ci viene dalla cultura anglosassone e scandinava: discrezione assoluta nella fase istruttoria, parità tra le parti nel poter disporre indagini e raccogliere testimonianze, pubblicità del dibattimento, nessuno svolazzo di gossip riguardo a fatti privati senza nesso con le accuse, sanzioni finanziarie pesanti per chi viola questi principi basilari senza rispettare i quali si piomba in URSS.
Breve cronistoria ad uso aperitivo, onde sollecitare l’appetito per i piatti forti che seguiranno i miei stuzzichini.
28 gennaio 2015. Operazione Aemilia, arresti di ‘ndranghetisti a iosa, sgominate le consorterie sparse nel territorio della Regione Emilia Romagna silenti e obbedienti alla sala comando in Calabria.Occorrerebbe a questo punto esibire il nome di un insospettabile notabile locale, meglio se esponente della politica, per alzare il livello diattenzione meritando la curiosità delle masse.
E qui casca a fagiolo l’avvocato Giuseppe Pagliani, classe 1973, dotato di una vis polemica assai fastidiosa per le sinistre al potere.
Viene umiliato, facendogli assaggiare l’amarezza e lo spavento della reclusione. Alle 4 del mattino bussano alla sua porta: “toc-toc- carabinieri!”. Segue l’esibizione del mandato di arresto, quindi il tornado della perquisizione davanti ai genitori, poi via in prigione. Pagliani rappresentava perfettamente quel modello: il cattivo dev’essere un politico, e – ça va sans dire – di destra.
Eccolo, è lui! Per vent’anni punta di lancia dell’opposizione al sistema rosso, dove si tengono per mano Pd e Coop costituendo una rete imperiale di dominio locale. In quel momento Pagliani – missino da ragazzo, quindi approdato con An nel Pdl – è ormai l’indiscusso leader di Forza Italia in tutto il Reggiano. Bersaglio idoneo pertanto.
Come inizia la sua disavventura?
Aveva partecipato anni prima a una cena con imprenditori e politici. Sono per lo più calabresi. Come del resto il proprietario del ristorante “Antichi sapori”. Quella cena era monitorata dai carabinieri per ricavarne l’organigramma dei mafiosi, dei loro clienti e dei politici di riferimento. Pagliani ci va, ascolta, dice due parole e va via. Ciascuno paga il proprio conto. Da quel momento Pagliani è intercettato.
C’è una telefonata che sembra prestarsi ad essere fraintesa. Peccato sia stata però trascritta malamente: capovolgendone il senso, e dando perciò al colloquio il significato opposto a quello attribuitogli dal maresciallo e dalla procura antimafia di Bologna.
Nessuna sottomissione alla criminalità da parte di Pagliani, nessun mettersi a disposizione dei mafiosi per assecondarne intenti delittuosi. Invece
contro logica e buon senso, ma soprattutto tradendo la realtà fattuale, il brillante avvocato finisce in cella su proposta dei PM ricopiata senza vaglio critico dal GIP. Sarebbe lui il terzo livello, quello politico, in un contesto mafioso che è il bosco dove le imprese edili, fondate da nativi della Punta dello Stivale, sono spuntate come funghi dopo lo sciagurato arrivo al confino reggiano di un boss della ‘ndrangheta di Cutro (provincia di Crotone).
In buona parte le imprese sorte nei paesi intorno a Reggio Emilia erano controllate dalla potente cosca Grande Aracri.
C’è un particolare grande come una casa: sono i cutresi ad aver tirato su le abitazioni private e gli edifici pubblici di Reggio e dintorni, inserendosi come ospiti del sistema rosso: la politica e gli apparati burocratici consegnano pavlovianamente gli appalti alle Coop, le quali subappaltano ai capimastro calabresi. E chi vanno a individuare i magistrati inquirenti come protettore mefistofelico di un disegno che la Cassazione infine definirà «economia emiliana colonizzata» dalla mafia?
C’è Pagliani: il marchio Made in Cosa Nostra è bene sia calcato sulla reputazione di uno di destra in rapida ascesa. Reato peraltro impossibile, essendo l’avvocato azzurro totalmente estraneo anzi nemico del sistema. Fa niente: manette!
Come detto il Tribunale del Riesame annullerà questa incarcerazione. Invano. La macchina trita innocenti non si ferma. Non la ferma neppure l’assoluzione in Tribunale di Giuseppe “per non aver commesso il fatto”, la procura impugna la sentenza, vuole la condanna a tutti i costi. La ottiene nel primo giudizio di appello a Bologna che affibbia 4 anni a Pagliani per concorso esterno alla ‘ndrangheta. La Cassazione rimanda indietro la sentenza, si deve ripetere il rito davanti a un’altra sezione, e stavolta la sentenza dei giudici Pagliani è: innocenza a tutto tondo.
È finita, uno penserebbe.
No, la Procura si ostina e ricorre alla Suprema Corte. La quale nel giugno del 2022 – sono passati 7 anni e mezzo dalla prima tappa di questo
itinerario orribile – scrive The End: assoluzione piena.
Pagliani non è contento, è furente. Com’è possibile che i PM sbaglino e facciano comunque carriera (i nomi li trovate nelle pagine a seguire), e un uomo veda irreparabilmente distrutta la sua carriera politica, danneggiata pesantemente l’attività professionale, sborsato un sacco di quattrini per la difesa, e tutto si risolva secondo il principio “chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto”.Insomma, questa vicenda dimostra per tabulas l’accanimento ingiustificato dei PM.
L’assoluzione non basta a Pagliani: chiede il risarcimento allo Stato per la immotivata privazione della libertà. E la Corte d‘Appello gli dà ragione: la galera preventiva è stata totalmente immotivata, Pagliani ha diritto al risarcimento. Ma la cifra tiene solo conto dei 23 giorni in gattabuia: 9200 euro.
Risulta una presa in giro a chi e per chi ha subito da innocente non presunto ma acclarato sette anni e mezzo di tormenti. La cosa più indecente è che quei danni non li paga chi ha sbagliato per ossequio al sistema rosso, ma lo Stato, cioè noi. Detto questo, Pagliani aveva già deciso, prima ancora di sapere l’entità della “riparazione per ingiusta detenzione”, di spenderla per metà in generi alimentari destinati ai poveri, e per metà alle vittime della malagiustizia.
L’avvocato reggiano li ha già stanziati quei soldi traendoli dai suoi risparmi, senza aspettare i comodi dello Stato che come al solito se paga, paga tardi.
Giuseppe, dopo la sua esperienza di patimenti, intende combattere per tutta la vita perché non accada più. È ancora giovane. Ma non credo che fra trent’anni, quando avrà la mia età del dattero, sarà riuscito ad abbattere come Don Chisciotte il mulino a vento della malagiustizia.
Ma ha ragione, la causa è giusta: io sono disponibile a fare la parte di Pancho.
Vittorio Feltri
Direttore editoriale Libero
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Oggi, giovedi 26 aprile, debutto in pubblico del libro “Ventitrè giorni” che Giuseppe Pagliani, avvocato ed esponente di Forza Italia e del centro destra a Reggio, ha dedicato a oltre 7 anni di persecuzione giudiziaria nel processo Aemilia, conclusa con un’assoluzione totale quasi un anno fa in Cassazione e poi col risarcimento (dal valore soprattutto simbolico) riconosciuto dallo Stato per l’ingiusta detenzione subita nell’inverno 2015: i ventitrè giorni di carcere, appunto, che danno il titolo al libro al quale hanno contribuito insieme all’autore giuristi, politici e giornalisti. La prefazione è di Vittorio Feltri. La presentazione avviene nel salone dell’hotel Mercure Astoria di Reggio Emilia (via Nobili 2) con inizio alle ore 18. Con Giuseppe Pagliani dialogano i giornalisti Roberto Caroli e Pierluigi Ghiggini. Presenta l’incontro Valeria Braglia, che ha coordinato la parte editoriale.
Di seguito pubblichiamo la prefazione di Vittorio Feltri a “Ventitrè giorni”.
DI VITTORIO FELTRI
La reputazione è il bene più prezioso che ci sia. Poter camminare con la fronte alta (magari dando un occhio fuggevole alle buche sul marciapiede), senza essere schivati dai concittadini come lebbrosi pronti a contagiare il prossimo, è il vero godimento della libertà.
Brutto è restare chiusi in cella, ovvio, specie se non hai potuto difenderti, essendo in custodia cautelare, e sai che i tuoi cari patiscono, mentre i vicini, con falsa condiscendenza, sbirciano le smorfie di sofferenza di moglie e madre.
Ma almeno in carcere nessuno ti giudica, trovi persino sguardi umani.
Peggiore è venire liberati, con sentenza del Tribunale del Riesame che smonta le accuse, e ritrovarsi macchiati con inchiostro indelebile quale corrotto o addirittura mafioso per l’insistenza nello sputtanamento da parte dei PM ben supportati dai media locali.
È il filo spinato invisibile del pregiudizio, che inesorabilmente ingabbia chi sia stato ammanettato di notte a favore di telecamera. Specie se il soggetto inchiavardato è un personaggio politico, e l’accusa è infamante, sei trattato dagli sguardi della brava gente come un morto che provvisoriamente cammina, ma sarebbe più prudente blindarlo.
C’è chi si nasconde per preservare parenti e amici, c’è chi cede psicologicamente e sprofonda nel buio interiore. Ma accidenti quanta dignità, che coraggio di combattente, ho ammirato in Giuseppe Pagliani, protagonista di questa storia.
La differenza, rispetto a mille vicende analoghe, è che alla fine ha vinto non solo in Tribunale e in Cassazione – com’era scontato, visto lo sconcertante travisamento di fatti e di parole operato dall’accusa – ma anche perché nell’immagine pubblica, tra la gente comune di qualunque opinione politica, è balzato fuori dalla tempesta come un gigante.
Il bilancio del male subito da Pagliani e dalla sua famiglia resta però terribile. Sul quaderno dei torti subiti ci sono 23 giorni di carcerazione ingiustificata e ingiustificabile, conferenze stampa à gogo di procuratori e sostituti procuratori dove l’onorabilità di un presunto innocente era scuoiata con lo scortichino per carogne; tutti erano autorizzati a tirargli in faccia un mulinello di cazzotti senza pericolo che ne fosse ripagato con la stessa vigliacca moneta; nessuna facoltà di replica essendo l’incriminato murato
dietro sbarre di ferro; l’ostinazione dei titolari dell’accusa nell’ignorare le argomentazioni e le evidenze portate alla luce dalla difesa, ma soprattutto nel gettare alle ortiche le sentenze e le motivazioni assolutorie dei giudici.
Mi permetto di riassumere la vicenda, sottolineando che però il finale non è ancora scritto. Lo sarà, e lo celebreremo quale passo avanti di civiltà, se vedremo tradotti in articoli di legge, applicati e non interpretati, i propositi del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, uomo retto e giurista eccelso, perché sia garantito il rispetto della dignità personale dell’indagato, che va risolutamente preservato dall’esibizione spudorata di accuse prima che il Tribunale si sia espresso con un giudizio.
L’esempio cui conformarsi ci viene dalla cultura anglosassone e scandinava: discrezione assoluta nella fase istruttoria, parità tra le parti nel poter disporre indagini e raccogliere testimonianze, pubblicità del dibattimento, nessuno svolazzo di gossip riguardo a fatti privati senza nesso con le accuse, sanzioni finanziarie pesanti per chi viola questi principi basilari senza rispettare i quali si piomba in URSS.
Breve cronistoria ad uso aperitivo, onde sollecitare l’appetito per i piatti forti che seguiranno i miei stuzzichini.
28 gennaio 2015. Operazione Aemilia, arresti di ‘ndranghetisti a iosa, sgominate le consorterie sparse nel territorio della Regione Emilia Romagna silenti e obbedienti alla sala comando in Calabria.Occorrerebbe a questo punto esibire il nome di un insospettabile notabile locale, meglio se esponente della politica, per alzare il livello diattenzione meritando la curiosità delle masse.
E qui casca a fagiolo l’avvocato Giuseppe Pagliani, classe 1973, dotato di una vis polemica assai fastidiosa per le sinistre al potere.
Viene umiliato, facendogli assaggiare l’amarezza e lo spavento della reclusione. Alle 4 del mattino bussano alla sua porta: “toc-toc- carabinieri!”. Segue l’esibizione del mandato di arresto, quindi il tornado della perquisizione davanti ai genitori, poi via in prigione. Pagliani rappresentava perfettamente quel modello: il cattivo dev’essere un politico, e – ça va sans dire – di destra.
Eccolo, è lui! Per vent’anni punta di lancia dell’opposizione al sistema rosso, dove si tengono per mano Pd e Coop costituendo una rete imperiale di dominio locale. In quel momento Pagliani – missino da ragazzo, quindi approdato con An nel Pdl – è ormai l’indiscusso leader di Forza Italia in tutto il Reggiano. Bersaglio idoneo pertanto.
Come inizia la sua disavventura?
Aveva partecipato anni prima a una cena con imprenditori e politici. Sono per lo più calabresi. Come del resto il proprietario del ristorante “Antichi sapori”. Quella cena era monitorata dai carabinieri per ricavarne l’organigramma dei mafiosi, dei loro clienti e dei politici di riferimento. Pagliani ci va, ascolta, dice due parole e va via. Ciascuno paga il proprio conto. Da quel momento Pagliani è intercettato.
C’è una telefonata che sembra prestarsi ad essere fraintesa. Peccato sia stata però trascritta malamente: capovolgendone il senso, e dando perciò al colloquio il significato opposto a quello attribuitogli dal maresciallo e dalla procura antimafia di Bologna.
Nessuna sottomissione alla criminalità da parte di Pagliani, nessun mettersi a disposizione dei mafiosi per assecondarne intenti delittuosi. Invece
contro logica e buon senso, ma soprattutto tradendo la realtà fattuale, il brillante avvocato finisce in cella su proposta dei PM ricopiata senza vaglio critico dal GIP. Sarebbe lui il terzo livello, quello politico, in un contesto mafioso che è il bosco dove le imprese edili, fondate da nativi della Punta dello Stivale, sono spuntate come funghi dopo lo sciagurato arrivo al confino reggiano di un boss della ‘ndrangheta di Cutro (provincia di Crotone).
In buona parte le imprese sorte nei paesi intorno a Reggio Emilia erano controllate dalla potente cosca Grande Aracri.
C’è un particolare grande come una casa: sono i cutresi ad aver tirato su le abitazioni private e gli edifici pubblici di Reggio e dintorni, inserendosi come ospiti del sistema rosso: la politica e gli apparati burocratici consegnano pavlovianamente gli appalti alle Coop, le quali subappaltano ai capimastro calabresi. E chi vanno a individuare i magistrati inquirenti come protettore mefistofelico di un disegno che la Cassazione infine definirà «economia emiliana colonizzata» dalla mafia?
C’è Pagliani: il marchio Made in Cosa Nostra è bene sia calcato sulla reputazione di uno di destra in rapida ascesa. Reato peraltro impossibile, essendo l’avvocato azzurro totalmente estraneo anzi nemico del sistema. Fa niente: manette!
Come detto il Tribunale del Riesame annullerà questa incarcerazione. Invano. La macchina trita innocenti non si ferma. Non la ferma neppure l’assoluzione in Tribunale di Giuseppe “per non aver commesso il fatto”, la procura impugna la sentenza, vuole la condanna a tutti i costi. La ottiene nel primo giudizio di appello a Bologna che affibbia 4 anni a Pagliani per concorso esterno alla ‘ndrangheta. La Cassazione rimanda indietro la sentenza, si deve ripetere il rito davanti a un’altra sezione, e stavolta la sentenza dei giudici Pagliani è: innocenza a tutto tondo.
È finita, uno penserebbe.
No, la Procura si ostina e ricorre alla Suprema Corte. La quale nel giugno del 2022 – sono passati 7 anni e mezzo dalla prima tappa di questo
itinerario orribile – scrive The End: assoluzione piena.
Pagliani non è contento, è furente. Com’è possibile che i PM sbaglino e facciano comunque carriera (i nomi li trovate nelle pagine a seguire), e un uomo veda irreparabilmente distrutta la sua carriera politica, danneggiata pesantemente l’attività professionale, sborsato un sacco di quattrini per la difesa, e tutto si risolva secondo il principio “chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto”.Insomma, questa vicenda dimostra per tabulas l’accanimento ingiustificato dei PM.
L’assoluzione non basta a Pagliani: chiede il risarcimento allo Stato per la immotivata privazione della libertà. E la Corte d‘Appello gli dà ragione: la galera preventiva è stata totalmente immotivata, Pagliani ha diritto al risarcimento. Ma la cifra tiene solo conto dei 23 giorni in gattabuia: 9200 euro.
Risulta una presa in giro a chi e per chi ha subito da innocente non presunto ma acclarato sette anni e mezzo di tormenti. La cosa più indecente è che quei danni non li paga chi ha sbagliato per ossequio al sistema rosso, ma lo Stato, cioè noi. Detto questo, Pagliani aveva già deciso, prima ancora di sapere l’entità della “riparazione per ingiusta detenzione”, di spenderla per metà in generi alimentari destinati ai poveri, e per metà alle vittime della malagiustizia.
L’avvocato reggiano li ha già stanziati quei soldi traendoli dai suoi risparmi, senza aspettare i comodi dello Stato che come al solito se paga, paga tardi.
Giuseppe, dopo la sua esperienza di patimenti, intende combattere per tutta la vita perché non accada più. È ancora giovane. Ma non credo che fra trent’anni, quando avrà la mia età del dattero, sarà riuscito ad abbattere come Don Chisciotte il mulino a vento della malagiustizia.
Ma ha ragione, la causa è giusta: io sono disponibile a fare la parte di Pancho.
Vittorio Feltri
Direttore editoriale Libero