DI GIAN PAOLO PELIZZARO E GABRIELE PARADISI
30/3/2023 – Lunedì 14 aprile 1980, il SISMI riferì al presidente del Consiglio, Francesco Cossiga, e ai ministri della Difesa e di Grazia e Giustizia, rispettivamente Lelio Lagorio e Tommaso Morlino, nonché al segretario generale del CESIS, prefetto Walter Pelosi, l’allarmante notizia secondo cui elementi del settore operativo estremista del FPLP avevano preso contatti con il noto terrorista Carlos (Ilich Ramirez Sanchez, detto anche lo Sciacallo).
Significativa al riguardo, secondo il nostro servizio segreto militare, era la presenza a Beirut – sempre in quel periodo – dello stesso Carlos. Non solo. Si riteneva possibile che l’eventuale iniziativa contro l’Italia (e cioè un attentato come ritorsione per il mancato rispetto degli accordi del cosiddetto Lodo Moro) avrebbe potuto essere «affidata ad elementi “autonomi” o non palestinesi e probabilmente europei, allo scopo di non creare difficoltà all’azione politico diplomatica di Arafat per il riconoscimento dell’OLP».
L’allarme del SISMI arriva 110 giorni prima dell’attentato alla stazione ferroviaria di Bologna, del 2 agosto 1980, che ha provocato la morte di almeno 85 persone (è sparito il cadavere di una giovane vittima, Maria Fresu di 24 anni, e il corpo di un’altra misteriosa donna di cui venne ritrovato soltanto un lembo del volto).
Il documento va contestualizzato.
La minaccia di un possibile e imminente atto ritorsivo contro il nostro Paese è contenuta in un appunto inedito del SISMI del 14 aprile 1980, classificato segretissimo e indirizzato al governo, nel quadro del lungo negoziato tra il capo del Centro SISMI a Beirut, colonnello Stefano Giovannone, e un alto esponente del Politburo del FPLP, Taysir Qubaa, avviato all’indomani dell’arresto del giordano di origini palestinesi, Abu Anzeh Saleh, responsabile in Italia della rete clandestina del Fronte popolare di George Habbash. Saleh era coinvolto nel traffico dei due lanciamissili di fabbricazione sovietica SAM (Surface Air Missile) 7 Strela, sequestrati la notte tra il 7 e l’8 novembre di quell’anno nei pressi del porto di Ortona.
La crisi dei cosiddetti missili di Ortona scoppia il 14 novembre 1989 con l’arresto di Saleh nella sua abitazione di Bologna da parte dei carabinieri. Il suo coinvolgimento nel trasporto delle due armi da guerra era confermato da plurimi riscontri probatori.
Già la mattina del giorno dopo, 15 novembre, il capo Centro SISMI a Beirut, colonnello Stefano Giovannone, trasmetteva al suo diretto superiore gerarchico, colonnello Armando Sportelli, direttore della Seconda Divisione, un cablo segretissimo in cui riportava le prime informazioni attinte in ambienti palestinesi e, in particolare, attraverso la fonte “Gufo”: nome in codice di Hayel Abdul Hamid, detto Abu al Hol. Insieme a Salah Khalaf (Abu Ayad), Abu Hol era a capo dell’Agenzia per la sicurezza e l’informazione di Fatah (Jihaz al-Rasd). Mantenne questo incarico fino al 14 gennaio 1991 quando venne assassinato insieme ad Abu Ayad e ad Abu Mohammed (Fakhri al ‘Umari) nella loro villa a Kartaj, in Tunisia, in un agguato attribuito al gruppo di Abu Nidal.
Secondo Abu Hol (Gufo), il rappresentante dell’OLP a Roma, Nemer Hammad, aveva deciso di non presentare alle autorità italiane una lettera di Arafat in cui assicurava l’estraneità palestinese, alludendo a responsabilità libiche. La decisione di non presentare questa lettera a firma di Arafat non storna il sospetto sulla condotta della dirigenza palestinese, la quale neanche a 24 ore dall’arresto di Saleh aveva tentato di fornire una versione inquinata e manipolata dei fatti in cui erano coinvolti.
Giovannone riportava le preoccupazioni dei dirigenti palestinesi circa le gravi conseguenze del caso Saleh: «Arafat, Gufo e altri esponenti dell’OLP sono costernati per grave episodio che compromette, se non addirittura annulla, quanto acquisito durante anno in corso nel campo politico-diplomatico. Soprattutto confronti governi Europa Occidentale et taluni settori [dell’] opinione pubblica statunitense». E aggiunge: «Essi [riferendosi ai suoi interlocutori dell’OLP] hanno compreso che episodio Ortona costituisce prova sinora mancante circa collusione tra palestinesi e terrorismo internazionale, che potrebbe coinvolgerli in corresponsabilità per operazioni più efferate anni scorsi, tra cui stessa vicenda Aldo Moro». I dirigenti dell’OLP interpellati assicurarono a Giovannone che «porranno sotto accusa esponenti FPLP et particolarmente Taysir Qubaa, rientrato ieri da Mosca con Arafat».
Come si vede, già da questo primo documento del SISMI sui fatti di Ortona compare il nome di Taysir Qubaa, 41 anni, esponente di spicco del FPLP, dal 1971 eletto membro del Comitato esecutivo dell’OLP, in rappresentanza del Fronte di Habbash. Qubaa era il capo di Saleh e responsabile delle sue attività in Italia sulle quali rispondeva in seno al Politburo dell’organizzazione.
Sul ruolo di Qubaa, il cablo di Giovannone riferisce quanto segue: «Preciso che Taysir Qubba, cui intervento presso organizzazioni terroristiche palestinesi che intendevano effettuare operazioni in Italia per liberare fedayn detenuti erasi rivelato determinante tra 1973 et 1975, nonché confronti vicenda tre fedayn tuttora detenuti, aveva chiesto anni addietro che Abu Anzeh Saleh potesse permanere Bologna, nonostante scarso profitto studi universitari». Per il direttore della Seconda Divisione del SISMI Sportelli, Qubaa era «il capo che si interessava di attentati».
La circostanza riferita nell’appunto non solo è vera, ma vede coinvolto lo stesso Giovannone come protagonista, per conto del Servizio, degli accordi presi con Qubaa cinque anni prima.
La richiesta avanzata da Qubaa, infatti, venne accolta e formalizzata in un salvacondotto in favore di Saleh, predisposto dallo stesso Giovannone e fatto controfirmare all’allora direttore del SID, ammiraglio Mario Casardi. Il documento portava la data del 27 ottobre 1974. Al momento dell’arresto di Saleh, il salvacondotto era ritenuto ancora valido dal diretto interessato e soprattutto dal suo agente manipolatore (Qubaa) come prova scritta dell’accordo (cosiddetto Lodo Moro).
La richiesta di Qubaa, prosegue Giovannone, «mi venne riservatamente motivata da affermazione secondo cui studente sarebbe stato accusato da in ambienti estremisti arabi Beirut di aver avuto parte importante nella collaborazione data da Albert Moukharbel [si riferisce al libanese Michel Whaid Moukarbal, capo della rete clandestina del FPLP in Europa, assassinato da Carlos perché ritenuto un informatore della polizia francese. Si tratta della strage di rue Toullier a Parigi del 27 giugno 1975 nella quale il terrorista venezuelano uccise anche due ispettori della DST e ne ferì un terzo in modo grave, ndr] at servizi libanesi et successivamente at quelli francesi, per identificare et catturare “Carlos” di cui era “il contatto” con il FPLP».
Il nome del super terrorista internazionale Carlos, come si vede, già emerge il 15 novembre 1979 nel primo atto SISMI sui fatti di Ortona e viene direttamente collegato proprio a Saleh. Leggiamo cosa scriveva sul punto sempre Giovannone: «La vicenda si concluse il 27 giugno 1975 a Parigi con uccisione Moukharbel et due ispettori servizi francesi da parte Carlos. Precisasi inoltre che, oltre at affermazioni ripetute da Taysir Qubaa circa attuale assoluta estraneità Abu Saleh at ambienti terrorismo italiano et internazionale anche perché “bruciato” da predetto episodio et presumibilmente sottoposto at vigilanza servizi sicurezza».
La lapidaria affermazione di Qubaa circa l’assoluta estraneità di Abu Saleh al terrorismo internazionale è non solo totalmente falsa, ma soprattutto inopportuna poiché, proprio nell’ambito della perquisizione che è seguita all’arresto di Saleh nella sua abitazione di Bologna, gli inquirenti trovarono un’agenda personale, relativa all’anno 1979, in cui alla pagina del 22 luglio era annotato a penna P.O. Box 904, relativo alla casella di posta noleggiata presso la Posta centrale di Bologna da Saleh con la quale manteneva clandestinamente i contatti con Carlos. L’annotazione P.O. 904 di Saleh era trascritta anche nell’agenda personale di Carlos, ritrovata anche questa nel corso di una perquisizione compiuta nella base del terrorista venezuelano a Budapest da parte del servizio di sicurezza ungherese. Questo riscontro smentisce le menzogne raccontate da Qubaa a Giovannone e riportate nel suo cablo inviato al direttore della Seconda Divisione del SISMI.
Restano comunque alcuni punti fermi, di straordinaria importanza, rassegnati a caldo in questo primo documento sui fatti di Ortona.
Primo: Saleh era l’uomo di Qubaa in Italia.
Secondo: Saleh era il capo della struttura clandestina del FPLP in Italia.
Terzo: sempre Saleh era collegato a Carlos almeno fin dal 1975.
Quarto. Il nome di Taysir Qubaa viene fatto da Giovannone nell’ambito degli accordi presi proprio per garantire la permanenza in Italia di Saleh.
Quinto: Qubaa, da questo momento in poi, diventerà l’interlocutore privilegiato di Giovannone nell’ambito delle trattative per risolvere la questione Saleh. E ciò fino alla data del 2 luglio 1980.
Stando ai 32 documenti versati all’Archivio Centrale dello Stato di Roma, dal 15 novembre al 17 dicembre 1979 vi fu una sola informativa del SISMI al governo circa le richieste da parte palestinese e gli esiti della drammatica trattativa con il Fronte di Habbash. In questo arco temporale, infatti, si registrano otto appunti, tutti documenti interni indirizzati o alla direzione della Seconda Divisione o al direttore del Servizio, generale Giuseppe Santovito. Nessuno di questi appunti aveva come destinatario il presidente del Consiglio o i ministri competenti. In uno, in particolare, quello datato 20 novembre 1979, classificato segretissimo e con oggetto “Operazione Strela”, Giovannone riferisce due cose di particolare gravità.
La prima, appresa la notte precedente in un colloquio avuto con la fonte “Gufo” (Abu Hol, il quale aveva in precedenza parlato con Taysir Qubaa), secondo cui «nessuna fornitura di armi a organizzazioni terroristiche italiane avrebbe mai avuto luogo». Un’altra, macroscopica menzogna fabbricata da Qubaa, tenuto conto, in particolare, del viaggio in Libano (denominato Operazione Francis) organizzato dal capo delle Brigate Rosse, Mario Moretti, insieme a Riccardo Dura, e Sandro Galletta, sulla barca a vela “Papago” dello psichiatra di Falconara Massimo Gidoni per recuperare e trasportare in Italia una parte dell’arsenale palestinese, composto da centinaia di darmi, munizioni, tubi lanciagranate, granate a razzo a carica cava, bombe a mano, detonatori elettrici e a miccia ed esplosivo al plastico. In particolare, vennero stipati nella stiva della barca di Gidoni circa sei quintali di esplosivo al plastico, detonatori a miccia, elettrici e inneschi al fulmicotone. Quel carico andò a costituire il deposito strategico dell’FPLP di George Habbash in Italia. I quattro a bordo della “Papago” salparono dal porticciolo di Numana, località sulla riviera del Conero, a ferragosto del 1979. Qubaa doveva conoscere bene i dettagli di quella missione segreta dei brigatisti italiani in Libano di appena tre mesi prima, ma preferì comunque fornire alla nostra intelligence informazioni false e depistanti.
La seconda questione è ancora più delicata perché attiene alla vita dello stesso Giovannone, il quale – per la prima volta – parla di se stesso e dei seri rischi che sta correndo. Parla della sua incolumità personale. Mette in guardia i suoi referenti a Roma del fatto che solo «comunicare dettagli ottenuti da Aldo et mie considerazioni at organi inquirenti, può determinare già condanna a morte da parte del FPLP che può essere eseguita indifferentemente qui o altrove, soprattutto se dovesse essere fatto il nome di Taysir Qubaa». L’appunto del 20 novembre 1979 si conclude con queste drammatiche parole di Giovannone ai suoi superiori: «Avete praticamente la mia vita nelle vostre mani, e tale affermazione non è retorica o motivata da preoccupazione ordine personale. Rientrando non risolverei nulla e verrebbe meno il contatto con i palestinesi». Giovannone teme per la sua vita perché minacciato di morte.
Nell’ottavo e ultimo appunto interno del SISMI sulla “Operazione Strela”, datato 17 dicembre 1979, compare per la prima volta, in termini chiari e gravissimi, la minaccia del FPLP al nostro Paese. Scrive Giovannone, all’esito di un «difficile colloquio» avuto quella stessa mattina proprio con Taysir Qubaa, il quale in quelle ore avrebbe svolto un «ruolo preminente» nell’ambito della crisi OLP-Libia: «Soggiungo che interlocutore habet minacciato immediata azione dura rappresaglia nel momento in cui venisse comunque a conoscenza del rifiuto o non rispetto impegno richiesto».
Con tutte queste premesse, il SISMI si prepara a informare il capo del governo Cossiga. Il 18 dicembre 1979, viene predisposto dalla Seconda Divisione di Sportelli un appunto per il direttore del Servizio Santovito, con oggetto “Sistema d’arma SA-7” da portare all’attenzione del presidente del Consiglio. In questo documento, fra l’altro, viene confermato il fatto che i due lanciamissili SAM 7 Strela sequestrati a Ortona erano stati acquistati nuovi dal FPLP al prezzo di 60mila dollari Usa e che l’acquisizione delle armi era avvenuta «tramite una grossa organizzazione internazionale, cui terrorismo palestinese farebbe capo per fornirsi di armamenti sofisticati in vista di una rinnovata campagna terroristica in Israele».
Ma c’è dell’altro.
Il giorno precedente, come abbiamo letto nell’appunto datato 17 dicembre, nel confermare che l’interlocutore privilegiato di Giovannone era diventato proprio lo stesso Qubaa, costui aveva formalizzato le sue gravissime intimidazioni qualora fosse venuto a conoscenza del rifiuto o del non rispetto degli impegni presi dalle autorità italiane con il Fronte. Queste minacce vengono ripetute nell’appunto predisposto per il presidente de Consiglio.
È lo stesso Cossiga a rievocare l’esito di quella riunione notturna a Palazzo Chigi a fine dicembre 1979, per esaminare proprio il contenuto dell’appunto del SISMI del 18 dicembre, nella nota lettera del 20 luglio 2005, scritta in occasione della presentazione a Montecitorio dell’inchiesta del mensile “Area” (“Bologna, a un passo dalla verità”), a firma di uno degli autori di questo articolo: «Il SISMI mi passò una informativa che si affermava originata dalla Stazione di Beirut, alias dal colonnello CC Giovannone, l’“uomo” di Aldo Moro, secondo la quale una determinata organizzazione della resistenza palestinese, la FPLP, rivendicava la proprietà dei due missili, non destinati all’Italia. In realtà non fu difficile a me e al sottosegretario alle Informazioni e alla Sicurezza, on. Mazzola, comprendere che i dirigenti del SISMI ci nascondevano qualcosa. Ci fu un burrascoso incontro notturno a Palazzo Chigi ed alla fine mi fu detta la verità e mi fu esibito un documento trasmesso dalla nostra Stazione: un telegramma del capo del FPLP a me indirizzato in cui, con il tono di chi si sente offeso per l’atto che ritiene compiuto in violazione di precedenti accordi, mi contestava il sequestro dei due missili e ne richiedeva la restituzione, insieme alla liberazione del compagno Pifano! [uno dei tre autonomi di Roma arrestati a Ortna mentre trasportavano in un furgone i due lanciamissili SAM 7 Strela, ndr]».
La circostanza relativa al burrascoso incontro notturno a Palazzo Chigi è stata rievocata anche da Armando Sportelli, l’allora direttore della Seconda Divisione, nel suo verbale di sommarie informazioni rese ai magistrati di Bologna il 24 febbraio 2014:
Domanda del sostituto procuratore Enrico Cieri: Lei sa che Saleh fu poi arrestato e condannato per la vicenda di Ortona?
Sportelli: Certo! Certo! Che è stata una delle cause per cui abbiamo allontanato Giovannone, proprio perché c’è questo fatto che Giovannone si è espresso a favore di tutti questi… Ha fatto arrivare una lettera del capo della struttura io dico terroristica dell’OLP per dire ce minacciava l’Italia… doveva essere liberato.
Cieri: Ma chi l’ha fatta arrivare questa lettera?
Sportelli: Passò da Giovannone, passò dalle mie mani, Presidenza del Consiglio, Cossiga. Cossiga ci convocò una notte a Palazzo Chigi. E lì fu dichiarato da Cossiga che assolutamente, non se ne faceva nulla, anzi…
Cieri: Quindi è una lettera che veniva dall’OLP…
Sportelli: Dell’OLP, sì.
Cieri: Per ottenere la scarcerazione di Abu Anzeh Saleh?
Sportelli: E la restituzione di questi missili Strela.
Cieri: E lei la consegnò…
Sportelli: La trafila era questa qua: da Beirut, Giovannone, Giovannone, Sportelli, Sportelli ministro della Difesa e Presidenza del Consiglio.
Cieri: E Cossiga?
Sportelli: Con un mio appunto, mi pare di ricordare bene… perché fu una nottata terribile a Palazzo Chigi questa. Feci un appunto, mi pare fosse il 18 o 19 dicembre di quell’anno.
Cieri: Ma poi lei con Cossiga ha parlato di questa lettera di Giovannone? Questa lettera che veniva da Giovannone?
Sportelli: Ne parlammo in questa [riunione]. Perché fui convocato io. Non so se anche Giovannone è a Palazzo Chigi.
Cieri: Sì, dopo che consegnò questa lettera a Cossiga?
Sportelli: Sì, dopo che Cossiga era stato informato. E fu una riunione in cui lo stesso capo del Servizio, Santovito […] temette di essere tolto dall’incarico.
Cieri: E cosa avete deciso in quella occasione? Cosa fu deciso in quella occasione?
Sportelli: Di non dare seguito alla lettera.
Tradotto in parole povere, di non dare seguito alle richieste e alle minacce dei palestinesi. Una lettera analoga a quella fatta pervenire a Cossiga, scritta in lingua inglese dal Comitato centrale del FPLP il 2 gennaio 1980, venne indirizzata, per mezzo dell’avvocato e parlamentare radicale Mauro Mellini, anche al presidente del Tribunale di Chieti, Federico Pizzuto, che stava giudicando in primo grado Saleh e i tre autonomi romani per i fatti di Ortona. La lettera venne depositata agli atti del processo all’udienza del 10 gennaio.
Verso la fine della sua deposizione, l’ex capo della Seconda Divisione del SISMI, rispondendo a una domanda del magistrato, si è lasciato andare a una considerazione che la dice lunga sull’esatta conoscenza che la nostra intelligence aveva della galassia palestinese. Conoscenza, questa, viziata da valutazioni e sensazioni personali infondate, in larga parte manipolate e scollegate dalla realtà dei fatti.
Cieri: Si ricorda se Carlos fosse in qualche rapporto con il Fronte, con i palestinesi?
Sportelli: Con i palestinesi? Ma vede, io conoscendo bene i palestinesi direi che non era nel loro stile avere rapporti con elementi come Carlos […] Quello di avere contatti con Carlos secondo me non era nello stile dell’allora dirigenza palestinese.
Sul punto, le affermazioni del generale Sportelli sono smentite purtroppo dallo stesso appunto del SISMI, generato proprio dalla sua Divisione il 14 aprile 1980, e, ancor peggio, da quanto – come vedremo più avanti – ebbe a segnalare la STASI, la polizia segreta dell’allora DDR, proprio sui contatti personali intercorsi tra Taysir Qubaa e Carlos a Berlino Est circa due settimane prima.
L’11 gennaio 1980, il giorno dopo il deposito della lettera del FPLP agli atti del processo di Chieti, Palazzo Chigi diramava una nota alle agenzie di stampa per sgombrare il campo da ogni equivoco, anche all’esito dell’incontro con i vertici del SISMI del 18 dicembre al quale hanno fatto riferimento prima Cossiga e poi Sportelli: «Nessun accordo è mai intervenuto tra il governo italiano od organi ordinari e speciali dell’amministrazione dello Stato ed organizzazioni palestinesi circa il deposito, il trasporto, il transito, la importazione, la esportazione o la detenzione in qualsiasi forma o per qualsiasi fine di armi di qualunque tipo nel territorio italiano da parte e per conto di organizzazioni palestinesi. Il governo italiano non intrattiene rapporti con il gruppo palestinese denominato FPLP».
Primo schiaffo in faccia a Taysir Qubaa e George Habbash.
Il 25 gennaio 1980, il Tribunale di Chieti, al termine del processo per direttissima di prima grado condannava Abu Anzeh Saleh e i tre autonomi Giorgio Baumgartner, Luciano Nieri e Daniele Pifano a sette anni di reclusione per detenzione e trasporto illegittimo di armi da guerra. Nonostante le pressioni e i tentativi di ingerenza (in particolare l’intervista di Rita Porena a a Bassam Abu Sharif apparsa sul quotidiano “Paese Sera” il 12 gennaio 1980 in cui l’alto dirigente palestinese rilanciava senza mezzi termini le richieste e le minacce del Fronte di Habbash al governo italiano) durante il dibattimento, nessuno degli imputati venne rimesso in libertà. Né vennero dissequestrati i lanciamissili per essere restituiti ai palestinesi. Il FPLP li aveva acquistati al prezzo di 60 mila dollari, completi del munizionamento, di tutti gli accessori e perfettamente funzionanti.
Secondo schiaffo in faccia a Taysir Qubaa e George Habbash.
A quel punto, le già delicatissime trattative tra Giovannone e Qubaa, che peraltro agiva come diretto superiore di Saleh e rispondeva nei confronti del Politburo del Fronte di George Habbash delle attività del suo uomo in Italia, si facevamo molto più complicate e rischiose.
Giovannone e Qubaa iniziano a giocare una rischiosa partita a scacchi che li impegnava anche e soprattutto a titolo personale. Per tutti e due era un patto col diavolo. Il primo, infatti, era non solo il fideiussore del cosiddetto Lodo ereditato dopo la morte di Aldo Moro, ma anche garante personalmente delle attività di Abu Anzeh Saleh nel nostro Paese (per conto prima del SID e poi del SISMI) sin dal 27 ottobre 1974, così come dimostra il salvacondotto predisposto in favore di Saleh e controfirmato dal direttore del SID, ammiraglio Mario Casardi, il quale riconosceva e sottoscriveva le rassicurazioni fornite all’epoca proprio da Qubaa. Quest’ultimo, sul versante opposto, era il burattinaio dello stesso Saleh, del quale rivendicava addirittura un legame di parentela e che – come detto – rispondeva delle sue attività sullo scenario italiano direttamente in seno al Politburo del FPLP.
Se Qubaa, a causa di un suo uomo (in questo caso Saleh), creava un problema che potenzialmente rischiava di coinvolgere tutta l’organizzazione, era lui stesso che doveva trovare al più presto una soluzione. A parti invertite, lo stesso meccanismo valeva per Giovannone, nei confronti del Servizio e quindi dello Stato italiano. Quello in posizione sfavorevole era proprio Giovannone, con tutto da perdere e nulla da guadagnare.
I due, Giovannone e Qubaa, erano implicati in un doppio groviglio personale e professionale ad alto rischio, che risaliva all’autunno del 1974 e che si era ingarbugliato negli anni proprio intorno alla figura e al ruolo di Saleh. Un personaggio chiave (non certo un «elemento emarginato anche perché bruciato» di secondo piano come volevano far credere i palestinesi nei giorni immediatamente successivi al suo arresto), che faceva da “ufficiale di collegamento” logistico per conto del FPLP con il gruppo Carlos, l’organizzazione terroristica Separat, così denominata dall’antiterrorismo della STASI.
Come abbiamo accennato, infatti, nell’agenda personale di Abu Anzeh Saleh relativa all’anno 1979, sequestrata dai carabinieri nella sua abitazione bolognese il giorno del suo arresto, sulla pagina corrispondente al 22 luglio di quell’anno era annotato il numero 904, relativo alla casella postale noleggiata proprio dal giordano presso le Poste centrali di Bologna. La stessa casella postale 904 di Bologna intestata a Saleh era stata annotata da Carlos nella sua agenda personale, ritrovata dal servizio di sicurezza ungherese nella sua base a Budapest. Queste informazioni dimostrano, se mai ve ne fosse ancora bisogno, la totale inaffidabilità delle varie informazioni e rassicurazioni fornite in particolare da Abu Hol a Giovannone per cercare di minimizzare quanto accaduto.
La seconda informativa al governo, dopo quella del 18 dicembre 1979, sarà proprio quella del 14 aprile 1980, quando, come abbiamo detto, il servizio segreto militare informava il presidente del Consiglio e i ministri competenti, oltre che il segretario generale del CESIS, dell’evolversi della situazione in chiave assai negativa e preoccupante. Dalle informazioni raccolte a Beirut sempre da Giovannone, il SISMI poneva l’attenzione sul fatto che – fino a quel momento – le iniziative violente erano state bloccate dai cosiddetti moderati del FPLP, ma con difficoltà perché pressati dai falchi del Politburo e che un eventuale appello all’OLP non sarebbe servito a nulla perché incapace di prevenire eventuali azioni terroristiche appaltate e affidate a elementi esterni («estranei al FPLP»), coperti da etichette sconosciute.
Il passaggio più sbalorditivo di questo documento è quando si riteneva possibile un’eventuale iniziativa contro l’Italia, affidata ad elementi “autonomi” e non palestinesi, probabilmente europei per non mettere in difficoltà l’azione diplomatica di Arafat per il riconoscimento dell’OLP. Siamo alla vigilia del vertice di Venezia del 12 e 13 giugno 1980, sul quale Arafat nutriva molte aspettative in termini politico-diplomatici. Ma il leader palestinese, letta alla luce di quanto scriveva la nostra intelligence, non solo sarebbe stato perfettamente al corrente delle spinte in avanti del fronte di Habbash nel punire il nostro Paese, ma ne condivideva segretamente finalità e obiettivi. Il solito gioco delle parti in un gioco di specchi. Per tale ragione, a parere del SISMI, sarebbe stata significativa l’entrata in scena proprio in quei giorni del terrorista Carlos con il FPLP.
Dal 14 aprile in avanti, la situazione si farà sempre più critica.
Ma di questo tratteremo in un secondo approfondimento, per anche per rispondere ai rilievi mosse da alcune improvvisate analisi pubblicate da alcuni presunti esperti.
Torniamo all’appunto del SISMI non versato all’Archivio Centrale dello Stato. In questo documento c’è la conferma di quanto dichiarò a verbale – l’8 ottobre 1986, davanti al giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni, nell’ambito dell’inchiesta sul traffico di armi tra OLP e Brigate Rosse – il colonnello Silvio Di Napoli, all’epoca dei fatti vice direttore della Seconda Divisione del SISMI (Ricerca all’estero), sui contatti presi a Beirut tra il FPLP di George Habbash e il super terrorista internazionale Carlos.
Silvio Di Napoli a verbale rivelò (il passaggio venne trascritto a mano dal giudice istruttore in calce al verbale dopo la sua riapertura, trattandosi di una integrazione di particolare rilevanza) che «dopo la prima condanna inflitta agli autonomi e al giordano [si riferisce a Baumgartner, Nieri, Pifano e Saleh, ndr.] pervenne da Giovannone l’informativa secondo cui il FPLP aveva preso contatti con il terrorista Carlos. Ciò avallò la minaccia prospettata da Habbash».
Tecnicamente, dal punto di vista formale, essendo il documento del SISMI, alla data dell’interrogatorio del colonnello Di Napoli, classificato segretissimo e coperto da segreto di Stato da oltre due anni, l’ufficiale della nostra intelligence militare, nel rivelare quelle informazioni avrebbe commesso un reato. Fortunatamente per lui, nessuno se ne accorse.
A distanza di circa 37 anni da quell’atto istruttorio emerge la straordinaria conferma delle dichiarazioni rese alla magistratura dal colonnello Di Napoli circa i contatti presi tra Carlos e FPLP nella primavera del 1980 e le relative “minacce contro gli interessi italiani” da parte palestinese, nel quadro della crisi che scoppiò all’indomani del sequestro dei lanciamissili a Ortona, dell’arresto e alla condanna in primo grado dei tre autonomi romani e del responsabile italiano della rete clandestina del Fronte popolare di George Habbash.
In particolare, il SISMI attirava l’attenzione di Palazzo Chigi sulle notizie relative ai contatti presi proprio in quei giorni dal FPLP con il terrorista Carlos. Informazioni, queste, che avvaloravano le gravissime minacce palestinesi rivolte alle autorità italiane dopo la condanna di Saleh. Su questo punto, abbiamo già un ulteriore, straordinario riscontro.
Il 28 marzo 1980 – appena un paio di settimane prima dell’appunto segretissimo inviato dal SISMI al governo Cossiga – proprio Taysir Qubaa si era effettivamente incontrato clandestinamente a Berlino Est con Carlos e il suo braccio destro, il tedesco Johannes Weinrich, in una suite dell’Interhotel Stadt Berlin. Il loro incontro venne puntualmente registrato dalla polizia segreta della DDR, come dimostra il rapporto informativo del 25 aprile 1980, predisposto dalla Divisione XXII della STASI. L’esponente palestinese, per dissimulare la propria identità, si era presentato alla riunione utilizzando il falso nome di Gerald Rideknight.
C’è il fondato sospetto che Qubaa fosse un Giano Bifronte. Abilissimo nel doppio gioco: da una parte cospirava con il gruppo Carlos contro il nostro Paese, dall’altra negoziava con il colonnello Giovannone, vestendo i panni dell’interlocutore «responsabile e moderato». Falso. Alla luce di tutto questo, Qubaa può essere definito un mentitore seriale. Un criminale di caratura internazionale, cinico, spregiudicato, inaffidabile. E non è escluso che lo stesso Giovannone sia caduto vittima del doppio gioco palestinese.
L’appunto del SISMI del 14 aprile 1980 fu coperto dal segreto di Stato dal presidente del Consiglio pro tempore Bettino Craxi il 28 agosto 1984, dopo che lo stesso Giovannone, indagato nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Roma sulla sparizione proprio a Beirut (il 2 settembre 1980) dei giornalisti Graziella De Palo e Italo Toni, in sede di interrogatorio chiese alla Presidenza del Consiglio l’opposizione del segreto di Stato in ordine ai suoi rapporti con i palestinesi. Questo documento, insieme ad altri, al termine di un lungo e laborioso iter amministrativo che si è sviluppato tra il governo presieduto da Mario Draghi e il Copasir (il Comitato parlamentare per la Sicurezza della Repubblica), presieduto all’epoca da Adolfo Urso, il 26 marzo 2021 è stato declassificato dall’AISE (l’Agenzia che ha preso il posto del SISMI) e il 16 aprile dello stesso anno il DIS (il Dipartimento alle dipendenze del governo
che coordina l’attività dei due rami dei servizi segreti) prendeva atto del provvedimento di declassifica da segretissimo a segreto.
Questo passaggio formale ha permesso al governo Draghi di svincolare questi atti del vecchio SISMI (relativi ai rapporti tra Giovannone e dirigenza palestinese) dal divieto assoluto di ostensibilità e di trasmetterne una parte, per competenza, all’autorità giudiziaria che ne aveva fatto richiesta. La restante parte (32 documenti) è stata versata all’Archivio Centrale dello Stato di Roma, comunque non divulgabili con vincolo della riservatezza.
L’appunto in questione (non ricompreso fra quelli versati all’ACS), come abbiamo visto, è stato generato dalle informazioni acquisite a Beirut dall’allora capo Centro SISMI in Libano, colonnello Stefano Giovannone.
La fonte privilegiata di Giovannone, il contatto definito «elemento responsabile» del FPLP, era proprio Taysir Qubaa, garante in seno al Politburo del Fronte di Habbash delle attività di Saleh, presentato come parente e suo ex autista. Nato nel villaggio di Qalqilya, in Cisgiordania, il 20 agosto 1938, Qubaa apparteneva alla generazione che diede inizio al movimento di resistenza palestinese. Dopo aver conseguito un master in Storia all’Università del Cairo, venne eletto presidente dell’Unione generale degli studenti palestinesi. In tale veste partecipò alle riunioni del Consiglio nazionale palestinese nel maggio 1964 a Gerusalemme, durante il quale venne annunciata la creazione dell’OLP. Dopo essere stato arrestato dalle forze di occupazione israeliane a Gerusalemme alla fine del 1967, Qubaa venne esiliato in Giordania nel 1971 dove venne eletto membro del Comitato esecutivo dell’OLP, in rappresentanza del FPLP. È morto nel 2016 ad Amman dove è sepolto.
La data del 14 aprile 1980 è particolarmente significativa, poiché precedeva di soli due giorni un altro foglio del SISMI (datato 16 aprile 1980 e non ricompreso fra i documenti trasmessi dal governo) citato nell’appunto del 24 aprile 1980 nel quale l’intelligence militare – sulla base delle informazioni assunte sempre da Giovannone a Beirut tramite Qubaa – confermava al governo l’allarme circa le gravissime minacce pervenute dalla controparte palestinese. Il FPLP aveva fissato come data limite (vero e proprio ultimatum) il 16 maggio 1980, interrompendo ogni contatto.
Il governo italiano avrebbe dovuto – entro la data stabilita dai palestinesi – soddisfare una serie di richieste:
Nessuna di queste richieste (tranne il rinvio del processo di secondo grado contro i tre autonomi e Abu Anzeh Saleh, deciso dalla Corte d’Appello de L’Aquila il 2 luglio 1980, così com’era già stato previsto sin dal mese di aprile) venne soddisfatta dalle autorità italiane prima dell’ultimatum fissato dai palestinesi.
Terzo schiaffo in faccia a Qubaa e Habbash.
Erano giorni incandescenti.
La situazione era sfuggita di mano. Il governo Cossiga, fermo sulle sue decisioni rese note l’11 gennaio, non volle cedere alle minacce palestinesi. I magistrati del distretto de L’ Aquila agirono di conseguenza, chiudendo la porta a qualsiasi patteggiamento o concessione extra legem.
Quarto schiaffo in faccia a Qubaa e Habbash.
Manca un mese alla rappresaglia. Il 2 luglio 1980, il direttore del SISMI, Giuseppe Santovito, appone quella mattina il suo visto a questo appunto segretissimo non destinato al governo. Le parole pesano come macigni:
«Fonte palestinese ha informato che il FPLP avrebbe deciso di riprendere la piena libertà d’azione nei riguardi degli interessi italiani a seguito del mancato accoglimento del sollecitato nuovo spostamento del processo di appello per la vicenda dei missili SA-7». Peraltro, lo stesso Giovannone tentò di entrare in contatto con gli interlocutori del FPLP, «ma con esito negativo».
Questo appunto, come detto, non venne inoltrato a Palazzo Chigi. L’ultima comunicazione scritta relativa alle gravissime minacce dei palestinesi risaliva al 12 maggio 1980. Quel giorno, infatti, il SISMI trasmetteva al presidente del Consiglio Cossiga, al ministro della Difesa Lagorio, al ministro di Grazie a Giustizia Morlino e sottosegretario con delega ai Servizi di informazione e sicurezza Mazzola un appunto particolarmente allarmante in cui, fra l’altro, affermava che «è confermata la data del 16 maggio quale termine ultimo per la risposta da parte delle Autorità italiane alle richieste del “Fronte”. In caso di risposta negativa, la maggioranza della dirigenza e della base del FPLP intende riprendere – dopo sette anni – la propria libertà d’azione nei confronti dell’Italia, dei suoi cittadini e dei suoi interessi con operazioni che potrebbero coinvolgere anche innocenti».
Tutte le richieste palestinesi vennero fatte cadere dal governo, in un modo o nell’altro.
Anche il presunto termine della richiesta palestinese, e cioè lo spostamento del processo in Corte d’Appello per la vicenda di Ortona, non era altro che un falso alibi, dal momento che – stando a quanto si legge dagli stessi documenti de SISMI disponibili – in un primo momento i palestinesi avrebbero chiesto al governo italiano, per il tramite del Servizio, di anticipare il processo di appello a giugno-luglio 1980. Poi, quando la trattativa era ormai compromessa, il Fronte di Habbash avrebbero chiesto di posticipare il processo a settembre-ottobre, quando questo era già stato previsto fin dal mese di aprile.
Che senso aveva da parte palestinese vincolare l’intera trattativa puntando tutto sul rinvio di qualcosa che era già previsto che sarebbe stato rinviato?
Da almeno tre mesi, infatti, così come era stato comunicato dallo stesso SISMI, l’inizio del processo di Appello era dato per settembre-ottobre e questo lo si legge proprio nell’appunto del 24 aprile di quell’anno.
Abu Anzeh Saleh, l’unico fra gli imputati condannati in primo grado a sette anni di reclusione per i fatti di Ortona, venne scarcerato il 14 agosto 1981 (vigilia del suo 32° compleanno). Neanche un mese dopo, il 10 settembre 1981, il giudice istruttore di Bologna Aldo Gentile trasmetteva alla Corte d’Appello (Sezione Penale) de L’ Aquila il seguente telex: «Ai fini procedimento relativo attentato stazione ferroviaria Bologna 2 agosto 80 rendesi necessario convocazione in Roma Saleh Abu Anzeh periodo 15 – 21 settembre. Prego pertanto autorizzare detto periodo assenza Bologna predetto imputato sottoposto codesta Corte obbligo dimora Comune Bologna et presentazione periodica Questura Bologna».
Per i magistrati de L’ Aquila la richiesta del giudice istruttore di Bologna suonava quanto meno strana se non ambigua. Tant’è che chiesero conferma. Infatti, alle ore 9.20 dell’11 settembre 1981, dalla cancelleria della Corte d’Appello del capoluogo abruzzese parte il seguente fonogramma, indirizzato all’Ufficio Istruzione Tribunale Bologna (dott. Gentile): «Pregasi confermare contenuto telex 10/9/81 codesto Ufficio inteso a ottenere autorizzazione a convocazione in Roma periodo 15-21 settembre Saleh Abu Anzeh». Firmato: il cancelliere Andrea Centanni.
E a stretto giro, dalla cancelleria dell’Ufficio Istruzione di Bologna partiva la conferma al telex del 10 settembre 1981, manoscritta in calce allo stesso fonogramma ricevuto da L’Aquila.
Alle 12.45 dello stesso giorno, 11 settembre, la Corte d’Appello de L’Aquila replicava tramite nuovo fonogramma, all’indirizzo della segreteria del dott. Gentile, autorizzando la richiesta: «Riferimento telex 10.9.81 relativo ad Abu Saleh Anzeh n. ad Amman il 18.5.49 comunico: il Presidente ritenuto che il Saleh Abu Anzeh deve recarsi a Roma per fini di giustizia dal 15 al 24 sett. 81 autorizza il predetto ad assentarsi da Bologna per il periodo suindicato ed al conseguente obbligo di presentarsi periodicamente alla Questura di questa città».
Non è finita. Altra stranezza, da un fonogramma all’altro, il periodo richiesto per il viaggio di Saleh a Roma inspiegabilmente passa da una settimana (15-21 settembre) a dieci giorni (15-24 settembre). E così, alle ore 9.55 del 12 settembre 1981, sempre il giudice Gentile trasmette alla Divisione Polizia Giudiziaria della Questura di Bologna (dove l’imputato Saleh dal 14 agosto aveva l’obbligo della firma) il seguente telex nell’ambito del procedimento penale 344/80 AGI: «Per opportuna conoscenza comunicasi Corte Appello Aquila a richiesta questo Ufficio abet autorizzato Saleh Abu Anzeh ad assentarsi da Bologna periodo 15-24 settembre».
A distanza di circa 42 anni, resta ancora ignota la ragione di questa misteriosa missione di Saleh a Roma. Soprattutto, non sono mai stati chiariti i motivi che spinsero il giudice istruttore di Bologna a richiedere ai colleghi de L’ Aquila quel permesso per l’ex capo del FPLP in Italia, condannato in primo grado a sette anni di reclusione per i fatti di Ortona.
Sentito a verbale dai colleghi di Bologna, il 7 novembre 2012 nell’ambito del procedimento penale sulla cosiddetta pista palestinese, Aldo Gentile – pur affermando di non ricordare il motivo che lo spinse a chiedere quello strano permesso per Saleh – fra le altre cose, non solo rivelò che lui e Saleh si conoscevamo e si frequentavano prima dei fatti di Ortona, ma che addirittura lui stesso, come giudice istruttore, si recò in missione a Roma – sempre nell’ambito delle indagini sulla strage alla stazione ferroviaria – per incontrare il fiduciario dell’OLP in Italia [si riferiva a Nemer Hammad, rappresentante dell’OLP in Italia dal 1974, scomparso a Beirut il 29 settembre 2016, ndr.] «il quale mi disse che Anzeh Abu Saleh era un suo agente e precisamente il suo agente a Bologna».
Intorno alla figura e al ruolo di Abu Anzeh Saleh si sono annodati alcuni dei misteri più impenetrabili della storia italiana del dopoguerra. L’oscura trattativa, che si dipana proprio dal sequestro dei lanciamissili di Ortona, dimostra come una parte della complessa e delicatissima gestione del Lodo Moro, dopo il 2 agosto 1980, passò segretamente anche attraverso l’istruttoria sulla strage di Bologna.
Questa materia è ancora oggi coperta dal segreto.
(Gian Paolo Pelizzaro e Gabriele Paradisi)