DI GIAN PAOLO PELIZZARO
13/3/2023 – Sgombriamo il campo da bufale e illazioni: nessun faldone di atti dei servizi segreti è mai sparito dagli archivi del Tribunale di Roma e nessuna manipolazione o taglio è stato mai operato sulla audiocassetta delle ipotetiche sevizie a Emanuela Orlandi, fatta ritrovare dai presunti rapitori della ragazza domenica 17 luglio 1983 dopo una telefonata all’Ansa.
Sono settimane che alcune trasmissioni mainstream (soprattutto Quarto Grado di Rete 4, in particolare nelle ultime due puntate di venerdì 3 e 10 marzo: non vorremmo che il bravo e attento Gianluigi Nuzzi sia scivolato sulla buccia di banana lasciata da qualche maldestro informatore) e giornali a corto di notizie rilanciano l’indigesto tormentone su un falso mistero: le presunte manipolazioni di un reperto agli atti dell’istruttoria sulla sparizione della quindicenne cittadina vaticana. Mi riferisco alla traccia audio di una cassetta fatta ritrovare – attraverso una telefonata anonima all’agenzia Ansa, la sera di domenica 17 luglio 1983, tre giorni prima dello scadere dell’incomprensibile ultimatum fissato dai presunti rapitori di Emanuela – in via della Dataria a Roma. L’audiocassetta era incisa su i due lati (A e B) e, in particolare, sulla facciata A erano stati registrati suoni e lamenti di una giovane donna che – frettolosamente e superficialmente – lo zio della scomparsa, Mario Meneguzzi (era sposato con Lucia, una delle sorelle di Ercole Orlandi, il padre di Emanuela), ritenne di riconoscere e attribuire alla nipote scomparsa.
L’intento intossicante e depistante degli ignoti e presunti rapitori della ragazza (che nelle loro telefonate in Vaticano e alla famiglia chiedevano lo scambio con l’attentatore del Papa, il turco Mehmet Ali Ağca, condannato all’ergastolo il 22 luglio 1981 dalla Corte d’Assise di Roma: sentenza mai appellata) aveva sortito il suo nefasto effetto sulla famiglia e soprattutto sugli inquirenti.
Innalzare la tensione per deviare le indagini.
Il tormentone su questo nastro, alimentato da illazioni, congetture e ricostruzioni lacunose a parziali, non si è esaurito, neanche di fronte a dati di fatto, riscontri incontrovertibili e smentite. Già il collega Tommaso Nelli – giorni fa – aveva provato a mettere una parola fine a questo falso scoop-falso mistero. Ma i dietrologi di professione, imperterriti e tetragoni, hanno proseguito nella loro sgangherata crociata, alimentando veleni e sospetti destituiti di ogni fondamento.
Anche per questo la sparizione di una povera ragazza minorenne (Emanuela Orlandi) in decenni di congetture e false piste si è trasformata in un caso senza soluzione, in un ingarbugliato intrigo internazionale. L’indiscriminato e incessante miscuglio di fatti veri, verosimili e del tutto falsi ha creato un polpettone avvelenato degno del peggior copione di un trash film di serie B. Oggi, a distanza di circa 40 anni dalla scomparsa di Emanuela (la quale, molto probabilmente, non vide mai la luce del sole di giovedì 23 giugno 1983), il groviglio tra finzione e realtà costituisce uno degli ostacoli più ingombranti per cercare di trovare una risposta ai tanti interrogativi che gravano sulla vicenda. La ricerca della verità è stata – in tutto questo lungo arco di tempo – condizionata, influenzata e inquinata da troppi falsi misteri, notizie infondate e patacche confezionate per il perverso gusto del facile sensazionalismo.
Le insistenti congetture su presunte manipolazioni delle tracce audio delle asserite sevizie a Emanuela contenute nel nastro del 17 luglio 1983 fanno parte di questo devastante campionario di stupidaggini. L’audiocassetta – infatti – non è mai stata né tagliata né manipolata e la traccia delle presunte sevizie è integrale e conservata agli atti d’archivio del Tribunale di Roma.
Da mesi sto svolgendo una ricerca presso gli uffici giudiziari di Roma finalizzata alla pubblicazione di un saggio proprio sulla vicenda Orlandi, che seguo ormai da oltre 30 anni (dal 1993). L’esame degli atti giudiziari sgombra il campo da azzardate ipotesi di complotto.
Infatti, la documentazione fin qui esaminata non lascia spazio a fanta-ricostruzioni: copia conforme dei documenti sul caso Orlandi (e in parte Gregori) provenienti dagli allora SISMI e SISDE è agli atti perfino dell’istruttoria sull’attentato a Giovanni Paolo II (cosiddetta Papa Ter) del giudice istruttore Rosario Priore e risolta il 21 marzo 1998 con una sentenza di proscioglimento e archiviazione. E fra i vari reperti sono perfettamente conservati anche i nastri delle registrazioni fatte ritrovare dai presunti rapitori della Orlandi nel luglio del 1983, fra cui quello delle ipotetiche sevizie alla ragazza.
Non solo. A conferma che il nastro delle cosiddette sevizie non è mai stato in alcun modo manipolato o tagliato, esiste il riscontro probatorio tra l’audio delle due facciate (A e B) e le relative trascrizioni elaborate dalle forze di polizia e dal SISDE. Suoni, rumori e voci (con lamenti e spezzoni di dialogo) sono fedelmente verbalizzate per agevolare il lavoro di studio e analisi.
Peraltro esistono agli atti più copie conformi di questo nastro e tutte corrispondono (per contenuto e durata) alla traccia originale incisa sul reperto audio del 17 luglio 1983. Si possono ascoltare, infatti, anche quelle voci maschili (una con uno spiccato accento romanesco) sulle quali sono state imbastite improbabili e fantasiose supposizioni e che tanto alimentano la fantasia dei novelli Sherlock Holmes.
Sospetti destituiti di ogni fondamento.
In questi atti sono conservate anche una serie di audiocassette relative al caso Orlandi, acquisite dal giudice Priore con decreto dell’8 settembre 1993. Fra questi reperti, compare anche la nota cassetta del 17 luglio 1983 con registrati (sul lato A, come abbiamo detto) i lamenti di una giovane donna e la voce di un uomo che detta (sul lato B) un lungo e contorto comunicato di rivendicazione del presunto sequestro della quindicenne cittadina vaticana, in cui l’anonimo richiedeva per l’ennesima volta lo scambio con l’attentatore del Papa, Ali Ağca.
L’audiocassetta del 17 luglio 1983 (una Sony HF della durata di 90 minuti) sulla quale tanto si parla a sproposito (così come tutte le altre registrazioni di telefonate a casa Orlandi o al loro legale dell’epoca, avvocato Gennaro Egidio) venne trasmessa in copia conforme al SISMI dal SISDE per le opportune verifiche e analisi. La nota di trasmissione della registrazione delle presunte sevizie ha la data del 18 luglio 1983 ed è firmata dall’allora vice direttore operativo del SISDE, Vincenzo Parisi.
La durata della traccia audio delle presunte sevizie è di 3 minuti e 10 secondi. La traccia sonora è integrale e perfettamente identica a quella incisa sul nastro originale fatto ritrovato in via della Dataria. Nulla è stato omesso o alterato rispetto al reperto originale agli atti della istruttoria formale, vecchio rito, di cui al numero di procedimento 1147/85 GI (l’istruttoria del giudice Adele Rando terminò con sentenza di proscioglimento e archiviazione il 19 dicembre 1997).
Copia del nastro audio fatto ritrovare il 17 luglio 1983 in via della Dataria
In questo reperto, peraltro all’epoca confezionato da chi aveva dimestichezza con le apparecchiature audio più sofisticate, si possono ascoltare rumori di fondo molto disturbanti per mascherare, presumibilmente, un articolato montaggio di voci e lamenti artefatti. Il nastro, in buona sostanza, è il frutto del lavoro di qualche professionista fonico che assemblò sulla facciata A suoni, rumori e voci diverse per drammatizzare ed esasperare – all’ascolto dei destinatari – un fasullo messaggio terrorizzante e raccapricciante.
Chi ha mandato in onda, fino ad oggi, i vari servizi televisivi sulle presunte manipolazioni di questo nastro di ipotetiche sevizie ha raccontato una storia non vera e alimentato un falso mistero. Tutto questo non è certo un buon servizio per la ricerca della verità.
Per quanto riguarda gli atti dei due rami degli allora servizi di sicurezza di cui la titolare delle indagini sulla sparizione di Emanuela Orlandi richiese – con due decreti emessi nel 1994, quindi successivi a quelli emanati del giudice Priore – la messa a disposizione, al termine dell’esame di queste carte il giudice istruttore Adele Rando ritenne opportuno restituire ai rispettivi enti di provenienza tutta la documentazione.
Il titolare dell’inchiesta appurò, infatti, che SISDE e SISMI avevano – di volta in volta, all’epoca dei fatti – ricevuto in copia i vari nastri (con messaggi e conversazioni telefoniche registrate o intercettate) e su questi avevano elaborato le loro verifiche e analisi. Nulla di sospetto. Nulla di strano. Nessun mistero, omissione o manipolazione. Peraltro nessun faldone di atti dei servizi segreti è sparito, come affermato imprudentemente dalla giornalista di Quarto Grado, e ciò è ben riscontrabile nei fascicoli delle varie inchieste condotte fino al 1998.
Questo “metodo” di fare giornalismo sembra sempre più simile a quello che per anni ha contraddistinto uno dei più noti scrittori britannici, David Yallop, divenuto celebre in tutto il mondo per il suo best-seller “In God’s Name” (Bantam Books, Londra), pubblicato nel giugno del 1984, un anno dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi, e nel quale il temerario giornalista londinese si inventò un fasullo complotto vaticano ordito per assassinare Papa Giovanni Paolo I (Albino Luciani, morto di infarto il 28 settembre 1978).
Sia ben chiaro, non c’è un solo riscontro serio, attendibile e inoppugnabile a conferma del teorema sostenuto nel libro di Yallop. Eppure la bufala creò un enorme scalpore a livello internazionale, facendo registrare un record di vendite. Tanti sospetti, illazioni e congetture. Nessuna prova.
Undici anni prima della sua scomparsa (avvenuta all’età di 71 anni a Londra il 23 agosto 2018), David Yallop vedeva pubblicato il suo terz’ultimo “saggio” dal titolo “The Power and the Glory – Inside The Dark Heart of John Paul II’s Vatican” (Constable, 2007). Mai tradotto in italiano, questo libro – così come gli altri dedicati ai misteri e agli scandali della Curia – è infarcito in modo sbalorditivo di errori, fesserie e circostanze inventate di sana pianta. Fra le tante, una delle “chicche” più ghiotte è rassegnata a pagina 471.
L’autore di “The Power and the Glory” riesce a scrivere che fu addirittura Ercole Orlandi, il padre di Emanuela, a far avere ad Ali Ağca il biglietto di invito per la visita di Giovanni Paolo II alla parrocchia di San Tommaso D’Aquino, nella periferia di Roma, nel quartiere Tor Tre Teste, domenica 10 maggio 1981, tre giorni prima dell’attentato a Piazza San Pietro. Addirittura, Yallop afferma che il terrorista turco era seduto in prima fila, fra i posti riservati alle autorità. Siamo al di là del bene e del male, professionalmente parlando. Partendo da alcuni elementi di fatto, peraltro rassegnati in modo non equivocabile nell’istruttoria Papa Ter, Yallop si è inventato tutta un’altra storia, attribuendo al povero padre della ragazza scomparsa un inquietante ruolo di fiancheggiatore o quantomeno facendolo passare per una sorta di (consapevole o inconsapevole) complice del killer turco.
Rosario Priore indagò molto su alcune foto scattate quella domenica durante la visita di Wojtyla alla parrocchia di San Tommaso D’Aquino, in cui – in alcune di queste immagini – qualcuno disse che c’era un giovane uomo rassomigliante ad Ağca. Non era seduto in prima fila, ma si vedeva in piedi defilato, dietro le transenne. Ma quella persona non era il terrorista turco. Costui, infatti, quel giorno (domenica 10 maggio 1981) era in tutt’altro luogo. Su dove si trovasse il turco, ce lo spiega il giudice Ilario Martella nel suo libro: «La notte tra il 9 e 10 maggio 1981, qualche ora dopo aver ricevuto l’arma (la pistola Browning cal. 9 con la quale sparerà a Wojtyla tre giorni dopo, ndr) da Ömer Bağci, giunto apposta dalla Svizzera, Ağca parte in treno dalla stazione di Milano in direzione di Roma, dove arriva verso le sette del mattino successivo».
E ammesso anche che non si incontrò con i complici Oral Ḉelic e Sotir Kolev (alias di Todor Ayvazov, il capo contabile dell’Ambasciata della Bulgaria a Roma) in un bar caffetteria a piazza Indipendenza intorno alle ore di quel giorno (come invece afferma Martella nella sua istruttoria sulla base proprio delle confessioni dell’attentatore del Papa), Ağca prende possesso della camera presso l’Hotel YMCA (prenotata per un solo giorno con il passaporto falso a nome Faruk Özgün) che all’epoca era in piazza Indipendenza. Da qui, un suo complice che si esprimeva in un italiano rudimentale (identificato dal giudice Martella in Ayvazov) telefona alla pensione Isa di via Cicerone, nel quartiere Prati (non distante dal Vaticano), e prenota una stanza sempre a nome Faruk Özgün a partire da lunedì 11 maggio. Solo restando su questi frenetici movimenti e spostamenti, ci si rende conto che non c’erano i tempi tecnici per l’attentatore turco di raggiungere quella stesso giorno l’estrema periferia Est della Capitale per infiltrarsi fra i fedeli della parrocchia di San Tommaso D’Aquino dove si sarebbe recato in visita pastorale il Papa. Non avendo né patente né autovettura, come si sarebbe spostato Ağca, peraltro non parlando l’italiano e non conoscendo strade e quartieri della città di Roma?
Per dovere di cronaca, dobbiamo dire che la notizia della presenza di questo giovane uomo rassomigliante ad Ağca, fotografato fra i fedeli della parrocchia di San Tommaso D’Aquino, era contenuta già nella dettagliata relazione sui soggiorni e spostamenti dell’attentatore turco, firmata il 15 settembre 1981 dal capo della Digos di Roma, Lidano Marchionne, e destinata al sostituto procuratore Nicolò Amato. Il medesimo rapporto sottolineava, peraltro, la circostanza secondo la quale «dal capoluogo lombardo l’Ağca proseguì verosimilmente in treno, alla volta di Roma, dove, nella serata del 10 maggio, prese alloggio presso l’Hotel Ymca».
Questo particolare chiude il caso.
Comunque, nell’ambito di questi accertamenti, venne sentito – fra gli altri – anche Ercole Orlandi (siamo nel 1995) in veste di commesso anziano della Prefettura della Casa Pontificia, organismo della Curia responsabile (all’epoca) dell’organizzazione delle udienze, delle visite e dei viaggi del Papa in Vaticano e in Italia. Ercole Orlandi, in quella sede, spiegò non solo come funzionava il suo ufficio, ma soprattutto chiarì che nessun biglietto di invito (né nominativo né generico) venne mai consegnato o recapitato ad Ali Ağca.
Il giudice Priore si limitò a prendere atto della somiglianza tra il volto di quel giovane presente durante la visita del Papa alla parrocchia di San Tommaso d’Aquino a Tor Tre Teste e quello di colui che tre giorni dopo cercò di assassinare Giovanni Paolo II.
Se lo standard professionale adottato da David Yallop nei suoi libri è quello utilizzato per ricostruire le circostanze qui rievocate, c’è da essere seriamente preoccupati sulla complessiva attendibilità e affidabilità delle sue inchieste.
Se mai entrerà in funzione la Commissione parlamentare sui casi Orlandi e Gregori, la prima cosa che consigliamo ai futuri commissari di questo organismo bicamerale è quella di iniziare una vasta opera di pulizia e rimozione dalle rispettive scene del crimine delle macerie di decenni di disinformazione e intossicazione. L’accertamento della verità dovrà fare i conti soprattutto con la puntuale verifica degli elementi di fatto, separandoli dalle tante congetture, dalle piste fantasiose, dai teoremi preconfezionati basati sul nulla, dai depistaggi e dalle patacche.