7/3/2023 – Metti un magistrato, uno di quelli tosti, uno che ha cominciato a occuparsi di ndrangheta dai primi anni 80, che non ha mai smesso per trent’anni e più, ed è venuto in pensione da sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia. Metti che quel magistrato distaccato alla Dda di Bologna per l’esplosiva inchiesta Aemilia, compagno di banco di Marco Mescolini, consideri necessario indagare, in un procedimento stralcio, un buon numero di politici, amministratori locali e funzionari per contiguità, complicità, promozione dell’espansione ndranghetista a Reggio Emilia e province limitrofe. Metti infine che qualcuno decida che è troppo, che non si può mettere sotto processo certi vecchi e giovani leoni di una classe politica che governa così bene l’Emilia Romagna dalla fine della guerra. E così finisce che quel magistrato troppo bravo e troppo ficcanaso viene messo in condizione di non nuocere, semplicemente levandolo di torno. Semplicemente il distacco alla Dda di Bologna, dove è rimasto nel 2012 e nel 2013 non viene rinnovato. Lui torna a Roma, i rampolli della sinistra rimangono al riparo del processo Aemilia, e intanto nel tritacarne sacrificale finiscono due esponenti di centro destra, Giovanni Paolo Bernini e Giuseppe Pagliani che col verminaio mafioso non c’entrano proprio niente e verranno completamente e definitivamente assolti dopo anni di accanimento persecutorio.
Questa, detta in breve, è l’incredibile parabola di un processo Aemilia scientificamente amputato della pars politica attraverso una scelta non colposa, bensì pienamente consapevole.
E’ soprattutto la storia del magistrato Roberto Pennisi, cordialmente fatto fuori dall’inchiesta Aemilia perché sapeva troppo e voleva, di fronte a una massa enorme di fatti, indizi e documenti, andare a fondo con un processo stralcio – da celebrare in parallelo al processo Aemilia One – nella sporca storia dei rapporti tra ndrangheta, politica e amministrazioni in quel gran pezzo dell’Emilia, nella loro evoluzione economica, sociale ed elettorale.
Pennisi ha raccontato questa storia stupefacente in un’ intervista al Giornale, raccolta da Luca Fazzo e Domenico Ferrara, con l’avvertenza che è già tutto scritto in una sua relazione inviata alla Procura Generale della Cassazione nell’ambito del procedimento disciplinare nei confronti dell’ex Procuratore di Reggio Marco Mescolini (rimosso dal Csm per un eccesso di attenzioni nei confronti del Pd). Relazione opportunamente sepolta nei cassetti del ministero della Giustizia, e di cui il senatore Maurizio Gasparri chiede da tempo ma inutilmente la liberazione.
Va detto che rispetto alle dichiarazioni rilasciate al Riformista un paio di anni fa, Pennisi va parecchio oltre, e rompe il silenzio sulle circostanze della sua cacciata da Bologna, dov’era stato chiamato due anni prima per dare manforte con la sua preparazione e la sua esperienza nell’indagine Aemilia. Rivela, per la prima volta, che lui al momento di tirare le somme, aveva insistito per un processo stralcio ai politici.
E dunque , in questa nuova intervista al Giornale Roberto Pennisi parla di Mescolini (“Pensavo che non capisse, col senno di poi mi sono dato spiegazioni diverse”), la scottante informativa Aisi su Maria Sergio, all’epoca potente ras dell’urbanistica in comune a Reggio, e moglie di Luca Vecchi, poi diventato sindaco. Cita anche Delrio e le campagne elettorali reggiane a Cutro (“una cosa mai vista”), ragiona sulla famosa lettera dal carcere di Pasquale Brescia che aveva tirato in causa proprio il sindaco Vecchi: “E’ stata letta come una minaccia, invece il discorso non è così semplice – ammonisce il magistrato – quella lettera è un segnale , è l’indice di un qualcosa che avrebbe potuto essere svelato, e non è stato svelato perché si è scelto di non indagare”. E aggiunge: “Alla fine dell’inchiesta Aemilia non c’è stato un solo politico condannato, eppure da quelle parti accadevano cose incredibili”.
Appunto, perchè si è scelto di non indagare. Ma è giusto che finisca così, e che la verità giudiziaria e la verità storica finiscano in cantina?
L’intervista, che proponiamo qui sotto nel testo integrale, è stata pubblicata lo stesso giorno in cui Giovanni Paolo Bernini, che da anni chiede la riapertura del filone politico di Aemilia, ha dato notizia del suo esposto denuncia al ministro della Giustizia. In proposito, la conclusione di Pennisi è amara: “Adesso è tardi, bisognava lasciare le esche giuste, e farlo allora”, quel processo ai politici.
Però una volta si diceva “non è mai troppo tardi”… Forse il tempo non è ancora scaduto.
Pierluigi Ghiggini
di Luca Fazzo e Domenico Ferrara
“Certi comportamenti del collega Mescolini allora ritenni che fossero dovuti alla sua incapacità di comprendere. Col senno di poi mi sono dato spiegazioni diverse”.
C’erano elementi per indagare davvero sui veri alleati della ‘ndrangheta in Emilia?
“Certo che c’erano, ma è stato scelto di non farlo. Forse per motivi di opportunità. Le cose possono essere lette in tanti modi. C’era la lettera scritta da un detenuto a un sindaco, ma è stata letta come una minaccia. Invece il discorso non è così semplice, quella lettera è un segnale , è l’indice di un qualcosa che avrebbe potuto essere svelato, e non è stato svelato perchè si è scelto di non indagare”.
Roberto Pennisi, per anni pm alla procura nazionale antimafia, oggi è in pensione. I due anni trascorsi a Bologna nel 2012-2013, a occuparsi dell’inchiesta Aemilia sulla mafia calabrese insediata tra Reggio e Modena, se li ricorda bene: compreso lo scontro frontale con il pm locale, Marco Mescolini. Quei ricordi Pennisi ha dovuto metterli per iscritto, nella relazione inviata alla Procura generale della Cassazione nel procedimento pre-disciplinare contro Mescolini. E’ una relazione rimasta nei cassetti del ministero che il senatore Maurizio Gasparri chiede invano da tempo di poter avere in risposta a una sua interrogazione. Forse non è un caso che sia rimasta blindata. Perché è un atto d’accusa esplicito iu come è stata condotta l’indagine emiliana: colpendo due innocenti di centrodestra, e lasciando cadere tutte le tracce che portavano invece a sinistra, verso il partito egemone da sempre.
“Agli atti – racconta Pennisi – c’era questa informativa dei servizi segreti, che ci era stata trasmessa dai carabinieri. Di spunti ce n’erano tanti, con nomi e cognomi. Se si fosse deciso, come io chiedevo, di aprire uno stralcio d’inchiesta sui rapporti tra ndrangheta e politica quelli sarebbero stati i primi nomi su cui avrei iniziato a indagare”. L’informativa dei servizi è agli atti del processo. I nomi che vi compaiono sono quelli di Maria Sergio, capo del servizio pianificazioine del comune di Reggio Emilia, e “moglie del capogruppo in Consiglio comunale di Reggio Emilia Luca Vecchi, quest’ultimo personaggio in forte ascesa all’interno delle fila del Paartito Democratico”.
Vecchi oggi è diventato sindaco di Reggio, ed è a lui che viene inviata la lettera dal carcere di cui parla Pennisi, firmata da uno degli arrestati nel blitz di Aemilia, Pasquale Brescia, calabrese di Cutro come buona parte della colonia decimata dagli arresti. Brescia rimprovera Vecchi per non avere difeso a sufficienza i cutresi indagati: a differenza del suo predecessore Graziano Delrio” scrive Brescia.
Sono queste le tracce che si dovevano approfondire . Invece vennero indagati solo due di centrodestra, Giovanni Paolo Bernini e Giuseppe Pagliani.
“Secondo me – dice Pennisi – nei confronti di Bernini non c’erano gli elementi per chiedere la custodia in carcere. Mai e poi mai. Lo scrissi. Ma la mia applicazione a Bologna non venne rinnovata, e la Procura chiese il suo arresto. Sulla richiesta la mia firma non c’è”.
Dunque, dottor Pennisi, ha ragione Bernini, che da anni va in giro a dire che mentre lui veniva accusato ingiustamente altri venivano salvati?
“E’ un fatto storico. Quando dico che c’erano degli aspetti da approfondire mi riferisco proprio a questo. Alla fine dell’inchiesta Aemilia non c’è stato un solo politico condannato, eppure da quelle parti accadevano cose incredibili. Indago sulla ndrangheta dal 1981, ma non avevo mai visto che i candidati alle elezioni locali in un città del nord attaccassero i loro manifesti anche in un paesino calabrese. Andava stralciata l’indagine, approfondita la posizione degli altri indagati o indagabili per concorso esterno in associazione mafiosa, invece non si fece nulla”. Nella nota dei servizi segreti rimasta lettera morta si intuisce uno sfondo dove tutto si mischia, la funzionaria pubblica che rende edificabili i terreni degli amici del clan è la stessa che lascia il posto dopo una strana storia di terreni ceduti alle coop rosse. Anche lì, ricordano i servizi, “erano coinvolti vari esponenti del Partito Democratico reggiano. I rapporti occulti tra ndrangheta e Pd nel cuore dell’Emilia rossa: questo è il vero nodo che la magistratura non ha voluto affrontare. Nel frattempo Mescolini è diventato Procuratore di Reggio Emilia e ne è stato cacciato – caso unico in Italia – per il trattamento morbido che riservava al Pd. Si potrebbe fare adesso, quella famosa indagine?
“Adesso è tardi – dice amaro Pennisi – bisognava lasciare le esche giuste, e farla allora”.
Carlo Menozzi
08/03/2023 alle 17:03
La scoperta dell’acqua calda….
Domandone
15/03/2023 alle 08:37
Come mai Fausto Poli non ha scritto nulla qui sotto?