DI GIAN PAOLO PELIZZARO
25/2/2023 – Imbarazzante.
Potrebbe esaurirsi con questo aggettivo l’esame del libro scritto da Maria Giovanna Maglie sul caso Orlandi, “Addio Emanuela”, edito da Piemme. Il volume è esposto nelle librerie sugli scaffali degli ultimi arrivi, nonostante sia stato pubblicato (come prima edizione) a settembre dello scorso anno. Ma a rendere la cosa ancora più stravagante è la fascetta rossa con uno strillo cubitale “Il libro che ha riaperto le indagini su Emanuela Orlandi”.
Ma di quali indagini si sta parlando?
Volendo andare oltre l’aggettivo imbarazzante (parola che racchiude in sé tutto il mio giudizio su questo sconclusionato sforzo intellettuale), cerchiamo di scavare un po’ più a fondo in questo saggio (pamphlet?) dedicato alla scomparsa della quindicenne cittadina vaticana, avvenuta mercoledì 22 giugno 1983.
Ci troviamo di fronte a un vero e proprio guazzabuglio. Un pastiche lo definirebbero in Francia. Un pastrocchio, diremmo noi. Con tutto il rispetto e la stima per la collega Maglie, con alle spalle decenni di attività professionale, ci saremmo aspettati da lei qualcosa di diverso e, diciamo, più serio.
Beninteso, nulla di personale contro Maria Giovanna, alla quale vanno tutti i nostri più sinceri e affettuosi auguri per una pronta e completa guarigione e un rapido ritorno in prima linea, più battagliera di prima. Questo articolo, sia chiaro, è solo ed esclusivamente un segnale d’allarme per un certo modo di affrontare temi drammatici, complessi, delicati e sensibili come questo, mischiando in modo indiscriminato finzione e realtà.
Sgombriamo subito il campo dagli equivoci: l’ossatura del libro, la sua spina dorsale è costruita su una patacca. Un documento falso: l’autrice lo definisce bonariamente un apocrifo. Si tratta del famigerato documento di 5 pagine dal titolo “Resoconto sommario delle spese sostenute dallo Stato della Città del Vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi (Roma, 14 gennaio 1968)”, datato 28 marzo 1998, e pubblicato per la prima volta da Emiliano Fittipaldi nel suo libro “Gli impostori. Inchiesta sul potere” (Feltrinelli, 2017). Strombazzato sui media come una «indagine serrata e documentatissima sulle mistificazioni dei potenti» (incredibile, ma è così), il saggio di Fittipaldi è un collage di tre “inchieste” la prima delle quali è interamente dedicata all’opera di un maldestro falsario sul caso Orlandi.
Ma cosa svelerebbe questa ignobile patacca?
Ce lo spiega con toni entusiastici il libro della Maglie:
«Il giornalista [Fittipaldi] avrebbe ricevuto da un informatore anonimo quella che appare come una lettera, recante la data del 28 marzo 1998 e il nome dattiloscritto del cardinale Lorenzo Antonetti, allora presidente dell’APSA (Amministrazione del patrimonio della Santa Sede Apostolica). Non è presente alcuna firma autografa del porporato, che in virtù del suo ruolo presenta una sorta di nota spese sostenute dalla Santa Sede per il “mantenimento” all’estero di Emanuela Orlandi dal giorno della sua scomparsa fino al 1997. La cifra complessiva è di circa 500 milioni di lire e include i costi per il sostentamento della ragazza, le visite mediche e un ricovero in una clinica inglese». Si tratta del St. Mary’s Hospital di Londra, dove – ovviamente – nessuno è mai riuscito a scovare il benché minimo riscontro a questa grossolana mistificazione.
Il documento fraudolento – come ci spiega l’autrice di “Addio Emanuela” – doveva essere destinato alla «Segreteria di Stato nella persona dell’allora sostituto, il vescovo Giovanni Battista Re e, per conoscenza, il vescovo francese Jean-Louis Tauran, segretario per i Rapporti con gli Stati».
Ovviamente il diretto interessato, il cardinale Lorenzo Antonetti, non è interpellabile perché morto il 10 aprile 2013. Mentre l’arcivescovo Giovanni Battista Re, all’epoca dei presunti fatti (1998) sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato, cardinale dal 21 febbraio del 2001 e dal 2020 Decano del Sacro Collegio, è vivo e vegeto e – insieme a monsignor Tauran, deceduto il 5 luglio 2018 – a suo tempo aveva smentito di «aver mai letto e ricevuto una lettera simile».
Prese posizione anche la Santa Sede con una nota della Sala Stampa che bollava questo pezzo di carta straccia come un «documento falso e ridicolo». Ma di queste smentite non c’è nessuna traccia nel libro della Maglie, la quale non solo rilancia l’intera intossicazione, ma si spinge oltre, inventando un’ipotesi che oltrepassa l’inverosimile.
Per farla breve, secondo la strampalata ipotesi di questo libro, Emanuela Orlandi, dopo la sua scomparsa (presentata come «allontanamento domiciliare»), sarebbe stata trasferita nel Regno Unito e rinchiusa in un convento di suore, l’Institute of St. Marcelline, dal 2006 adibito a residence per studentesse straniere, ubicato al civico 6 di Ellerdale Road a Londra (NW3 6NB) nel cuore del quartiere Hampstead. Lo stesso indirizzo dove – sempre secondo la nota spese-patacca di Fittipaldi – si sarebbe recato in incognito perfino Camillo Cibin, ex comandante della Gendarmeria vaticana, deceduto il 25 ottobre del 2009. Un altro testimone che non può, per ovvie ragioni, né confermare né smentire.
Senza alcuna possibilità di comunicare con l’esterno per anni, Emanuela Orlandi sarebbe rimasta segregata in questo convento londinese fino al 1997, anno in cui l’ormai ventinovenne giovane cittadina vaticana sarebbe morta. Scrive la Maglie: «Secondo questo documento, quindi, Emanuela sarebbe morta nel 1997 e poi sarebbe stata riportata, cadavere, nella Città del Vaticano, dove sarebbe sepolta» nel Cimitero Teutonico.
In questo luogo, invece, è sepolta suor Pascalina Lehnert, religiosa tedesca divenuta famosa per essere stata assistente personale del cardinale Eugenio Pacelli, salito al Soglio Pontificio col nome di Papa Pio XII, morta il 13 novembre 1983. Tenetevi forte. Tutto ruota intorno alla figura, definita un «personaggio misterioso», di Anna Orlandi, sorella di Ercole e zia di Emanuela, sulla quale la Maglie riesuma un’altra ambigua storia, diffusa per la prima volta dalla fotoreporter Roberta Hidalgo nel suo controverso e ormai introvabile libro “L’affaire Orlandi”, pubblicato dalla Libreria Croce nel 2012.
Secondo questa ipotesi la zia Anna era figlia di suor Pascalina e Papa Pio XII, poi affidata ai genitori di Ercole Orlandi: «Suor Pascalina Lehnert nacque nel 1894, Anna Orlandi è nata nel 1931 (è morta a 80 anni nel 2011). Pacelli è diventato pontefice nel 1939, quando Anna aveva già 8 anni, ma prima era stato segretario di Stato del Vaticano dal 1930, quando Pascalina, che lui conosceva sicuramente almeno dal 1919, aveva 36 anni. Anna Orlandi, insomma, è nata quando Pacelli era segretario di Stato da un anno e Pascalina aveva 37 anni».
Bene, ammesso che tutto ciò sia vero, che collegamento ci sarebbe con la sparizione di Emanuela, nipote di Anna? Mistero.
La misura della modestia di questo libro la troviamo a pagina 64 quando si legge che «alle 7:30 del 23 giugno 1983 Natalina Orlandi, sorella maggiore di Emanuela, raggiunse la Gendarmeria vaticana, che allora si chiamava vigilanza del Vaticano, per denunciare la scomparsa della sorella».
Raramente tanti errori sono concentrati in così poche righe.
Natalina Orlandi quella mattina non si recò presso il Corpo della Gendarmeria vaticana per denunciare la scomparsa della sorella, primo perché la denuncia di scomparsa venne presentata presso l’Ispettorato Generale di Pubblica Sicurezza presso il Vaticano (si tratta di un ufficio della Polizia di Stato italiana che ha sede in via del Mascherino 12, fuori le Mura leonine), secondo perché nel giugno del 1983 la Gendarmeria vaticana non esisteva. Dal 15 dicembre 1970, infatti, con l’abolizione di tutti i corpi militari del Vaticano (ad eccezione delle Guardie Svizzere) voluta da Papa Paolo VI, era stata trasformata e ridenominata in Ufficio Centrale di Vigilanza. Solo il 22 gennaio 2002, con specifica legge, la Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano ricostituì la Gendarmeria, riassumendo il vecchio nome del corpo. Può sembrare una pignoleria, ma non lo è. Sul punto, la ricostruzione rassegnata nel libro lascia spazio a erronee interpretazioni.
Nelle stesse pagine (86), si legge ancora: «Non è stato rivelato in cosa consistesse il lavoro di Ercole Orlandi, in perfetto stile vaticano».
Del tutto falso.
Le mansioni relative alle attività lavorative svolte dal padre della scomparsa per conto della Prefettura della Casa Pontificia sono state scandagliate, nei minimi particolari, dai giudici istruttori Rosario Priore, nell’ambito del cosiddetto procedimento penale Papa Ter, e Adele Rando, titolare dell’inchiesta sulla sparizione della Orlandi. In una serie di verbali di sommarie informazioni, Ercole Orlandi – tra marzo e luglio del 1995 – ha raccontato ai magistrati, con ampiezza di particolari, in cosa consistesse il suo lavoro, quello dell’organismo dove era impiegato e il suo organigramma.
Anche per questo, sarebbe stato sufficiente fare qualche doverosa verifica per evitare sgradevoli smentite.
In questo minestrone di storie vere, verosimili e false, abbiamo quest’altra coincidenza, ben alimentata nel libro della Maglie, che prende scena nell’ estate del 2018 (tre anni dopo la tombale archiviazione dell’inchiesta sul caso Orlandi da parte del GIP del Tribunale di Roma, dott. Giovanni Giorgianni, del 19 ottobre 2015) quando l’avvocato Laura Sgrò, nuovo legale di Pietro Orlandi, fratello maggiore di Emanuela, riceve «una lettera anonima con un messaggio criptico per trovare Emanuela “cercate dove indica l’angelo”. Era un riferimento alla statua di un angelo collocata nel Cimitero Teutonico. L’angelo al quale alludeva la lettera ha in mano un foglio in cui c’è scritto Requiescat in Pace, e allegata alla missiva c’era anche la foto di una lapide, quella della principessa Sophie von Hoenlohe [rectius Hohenlhoe]». Principessa di Hohenlohe-Bartenstein.
La tomba della principessa Sophia Hohenlohe-Bartenstein nel Cimitero Teutonico in Vaticano
Il suo nome completo è Sophia Carolina Josepha Philippina Maria Anna Lucia, nata il 13 dicembre 1758 e morta a Roma il 20 gennaio 1836. Figlia del principe Ludwig Leopold di Hohenlohe-Bartenstein (nome completo Ludwig Carl Franz Philipp Leopold, 15 novembre 1731 – 14 giugno 1799) e di sua moglie, la contessa Polyxena di Limburg Stirum (28 ottobre 1738 – 26 febbraio 1798). Sophie non si è mai sposata. Era devota alla sua fede cattolica e trascorse i suoi ultimi anni a Roma. Il suo sepolcro è conosciuto come la Tomba dell’Angelo, proprio per la statua dell’angelo che regge, come abbiamo detto, in mano una lastra con la scritta “Requiescat in Pace” (Riposa in Pace) che la contrassegna.
La Sgrò, a nome di Pietro Orlandi, il 25 febbraio 2019 presenta in Vaticano un’istanza finalizzata a chiedere l’apertura di questa tomba e di quella attigua, appartenente alla principessa Carlotta Federica di Meclemburgo-Schwerin, nata il 4 dicembre 1784 da Federico Francesco I di Meclemburgo-Schwerin e Carlotta Sofia di Sassonia-Coburgo-Saalfeld. Nel 1830 si traferì a Roma, abbracciò la fede cattolica e qui trovò la morte il 13 luglio 1840.
Le tombe delle due principesse furono scoperchiate, in mondovisione, l’11 luglio 2019, alla presenza del promotore di giustizia del Tribunale della Città del Vaticano. Con grande delusione e sorpresa di tutti, i sepolcri erano vuoti: nessuna traccia né dei resti di Emanuela né delle salme delle due nobildonne eredi dell’ormai decaduto Sacro Romano Impero.
Un’altra macabra pagliacciata stile Dan Brown.
Ma il delirio non finisce qui. Tornando alla messinscena del falso pubblicato da Fittipaldi (da quello che scrive la Maglie sembra che questo foglio apocrifo provenga «dall’archivio di Lucio Vallejo Balda, il monsignore spagnolo segretario dell’ex COSEA, la commissione pontificia incaricata di far luce sulle finanze vaticane», istituita con chirografo da Papa Francesco il 18 luglio 2013), apprendiamo che l’autore del falso, corredato di «197 allegati mai resi pubblici», e quindi del gigantesco imbroglio sarebbe monsignor Vallejo Balda il quale «non agì da solo, ma fu guidato da un settore deviato dei servizi segreti spagnoli che lo teneva sotto tutela per sfruttare la sua presenza in Vaticano». Balda – ci ricorda la Maglie – «fu poi arrestato nel 2015 per aver divulgato documenti segreti nell’ambito del cosiddetto Vatileaks 2».
Nella presunta nota spese di Fittipaldi-Maglie, viene citato anche un altro personaggio, tale Teofilo Benotti, in riferimento a non meglio specificate «attività di gestione stampa» per il caso Orlandi. Secondo la Maglie, Benotti «era molto ascoltato nella cerchia di Wojtyla». Chi altri sarebbero stati a conoscenza dei segreti di monsignor Balda, si domanda la Maglie? Ecco la risposta: «Probabilmente Mario Benotti [il paffuto faccendiere salito alle recenti cronache giudiziarie poiché coinvolto nello scandalo della maxicommessa di oltre 72 milioni di euro per l’acquisto di 801 milioni di mascherine cinesi, durante la pandemia di Covid 19, sfruttando la sua amicizia con il commissario straordinario Domenico Arcuri] , figlio di Teofilo, l’uomo di fiducia di Giovanni Paolo II che, come abbiamo visto, negli anni Ottanta aveva aiutato il Papa a far giungere i finanziamenti a Solidarnosc in Polonia».
«Introdotto negli ambienti vaticani dal padre – prosegue la Maglie – Mario Benotti ha sempre saputo districarsi tra vescovi e cardinali, tanto da entrare in amicizia con monsignor Balda, che conosceva già prima dell’istituzione della COSEA. Avevano un rapporto di fiducia e lealtà, parlavano, si confidavano, anche reciproci segreti. Uno di questi riguardava Emanuela Orlandi». Prove e riscontri di tutto questo? Non pervenuti.
Altri dettagli (leggi illazioni) si aggiungono a questa fantasiosa narrazione: «Mario Benotti era depositario di una pesante eredità ricevuta dal padre. Il periodo in cui Teofilo collaborava attivamente con la Santa Sede coincideva con quello della scomparsa della ragazza, quindi è facile intuire che l’uomo fosse venuto a conoscenza di particolari importanti su Emanuela e la sua sorte. Particolari riportati in una memoria che Teofilo aveva consegnato al figlio prima di morire, e che Mario aveva condiviso con l’amico Balda».
«Nella seconda metà del 2015 – si legge a pag. 192 – Mario Benotti, giornalista ed ex responsabile di Rai International, fu coinvolto nell’inchiesta su Vatileaks aperta dalla Procura di Terni, dove già risultavano indagati il monsignore spagnolo Balda e Francesca Immacolata Chaouqui».
Fu sempre la Chaouqui a presentare a Benotti il Balda.
Un verminaio.
Ricordiamo che nello scandalo internazionale che portò poi all’arresto di monsignor Balda, vennero coinvolti nel traffico e diffusione di documenti riservati vaticani anche lo stesso Fittipaldi, Gianluigi Nuzzi nonché una stravagante e inquietante esperta di pubbliche relazioni, Francesca Immacolata Chaouqui, «nata nel 1982 a San Sosti in provincia di Cosenza, da madre italiana e padre francese di origine marocchina».
Nel 2013, sarà Papa Francesco a incaricare la Chaouqui di far parte della COSEA come segretario e «la vincola al segreto, con l’impegno di riferire esclusivamente al Pontefice».
Certo, pure Bergoglio che affida a questa pierre calabro-franco-marocchina la gestione dei documenti riservati della struttura economico-finanziaria della Santa Sede…
Col senno di poi, un vero “affare” per il Vaticano.
La Maglie ci tiene a sottolineare che «fu proprio Francesca Chaouqui a presentare Laura Sgrò a Pietro Orlandi».
Fittipaldi e Nuzzi sono stati assolti per difetto di giurisdizione. Mentre la Chaouqui, soprannominata “la papessa”, è stata condannata a dieci mesi di reclusione (con pena sospesa) per concorso in divulgazione di documenti riservati della Santa Sede.
Andiamo avanti.
Passando tra una fantomatica ricevuta del marmista che si sarebbe occupato della tumulazione di Emanuela Orlandi nel Cimitero Teutonico (le cui tombe riaperte nel 2019, come abbiamo visto, erano ovviamente vuote, così come non erano stati trovati i resti di Emanuela nella tomba di Enrico De Pedis, detto Renatino, nella cripta della basilica di Sant’Apollinare, il 14 maggio 2012) e il presunto trasporto della salma di Emanuela («sotto falso nome») da Londra alla Città del Vaticano nel 1997, si arriva – seguendo le acrobatiche e strampalate ricostruzioni di questo libro – all’ultima ipotesi di questa sceneggiata e cioè che la salma della povera Emanuela dopo essere stata sepolta nella tomba monumentale in una delle due principesse nel Cimitero Teutonico, sarebbe stata riesumata per essere poi cremata.
Maria Giovanna, perdonami, ma – volendo anche credere al tuo teorema del complotto – non sarebbe stato più semplice, logico e lineare cremare il corpo della ragazza a Londra, invece di imbarcarsi in tutti quegli inutili e pericolosi trafugamenti di cadavere, tumulazioni e cremazioni?
Ma non è finita qui. In uno dei sepolcri vuoti del Camposanto Teutonico dove sarebbe stata occultata la salma di Emanuela, sarebbero stati perfino nascosti documenti che la riguardavano. Riscontri, prove, testimonianze su tutto questo? Nulla.
Zero.
Le fantasiose ricostruzioni della Maglie basate sul report falso di Fittipaldi le chiudiamo qui, anche per salvaguardare un po’ della nostra salute mentale.
Concludiamo questo viaggio negli orrori sul caso Orlandi, partendo da alcuni passaggi del libro in cui compaiono errori, informazioni destituite di fondamento o altre del tutto inventate o false.
In apertura (pag. 9 e seguenti) si fa riferimento a una presunta telefonata del cosiddetto Amerikano alla Santa Sede, alle ore 20:30 del 22 giugno 1983, in cui il misterioso interlocutore, chiedendo di parlare con il segretario di Stato, cardinale Agostino Casaroli, alla suora del centralino vaticano avrebbe detto «Emanuela è stata rapita».
Ebbene, questa telefonata non esiste agli atti dell’istruttoria sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Tanto è vero che la Maglie costruisce il suo racconto su questa presunta telefonata, senza mai fornire un riscontro a tale circostanza. Nessun riferimento. Nulla.
A pag. 10, la Maglie scrive: «Si riferiva a Emanuela Orlandi, figlia di un commesso pontificio, Ercole Orlandi, che lavorava presso la Segreteria di Stato della Città del Vaticano».
Falso.
Ercole Orlandi, il padre di Emanuela, era impiegato come commesso anziano della Prefettura della Casa Pontificia e non della Segreteria di Stato. È come confondere la Presidenza del Consiglio con l’Ufficio del Cerimoniale.
A pag. 12, si legge che la notizia della scomparsa (rapimento) della ragazza raggiunse il Papa «mentre era in volo verso l’Italia insieme al cardinale Casaroli e al sostituto alla Segreteria di Stato, arcivescovo Eduardo Martìnez Somalo». Da dove risulta? E soprattutto come fecero a far arrivare la notizia mentre Wojtyla era in volo? Dal Vaticano a Roma qualcuno telefonò a bordo dell’aereo dove viaggiava il Pontefice?
Ma di cosa stiamo parlando?
A pag. 16, la Maglie incorre in un grave errore e questo, come molti altri, è frutto di sciatteria e superficialità, perché bastava svolgere il compitino che ti insegnano il primo giorno al corso per diventare giornalista e cioè verificare le informazioni prima di tradurle in notizie onde evitare di scrivere castronerie: «Nonostante simulasse un accento anglosassone, l’Amerikano era presumibilmente di origine slava o mediorientale, stando all’identikit fatto dal direttore del SISDE Vincenzo Parisi e reso noto solo nel 1995».
Falso.
Questo identikit della mente (o Mister X) che orchestrava l’attività depistante dei presunti rapitori di Emanuela Orlandi non venne «fatto» da Vincenzo Parisi e non venne reso pubblico nel 1995. La relazione del SISDE venne firmata da Parisi come vice direttore operativo del servizio (il direttore era il prefetto Emanuele De Francesco, il quale in quel periodo – il 14 novembre 1983, data a cui risale l’analisi del SISDE – assumeva su di sé anche altri due incarichi di straordinaria importanza: prefetto di Palermo, dopo l’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, e alto commissario alla lotta contro la mafia), ma venne elaborata da uno dei più brillanti e preparati analisti del servizio segreto civile (vivo e vegeto e con la memoria intatta).
Ma soprattutto questo documento non venne reso noto nel 1995, ma il 31 marzo del 1994 proprio da chi scrive, in un articolo a tutta pagina (che mostriamo qui per dovere di cronaca), pubblicato dal quotidiano L’Indipendente e intitolato “È un alto prelato la mente del caso Orlandi”.
Va detto che sulla stampa, fino a quel momento, nessuno aveva mai avanzato un’ipotesi così grave e specifica nei confronti del Vaticano (inteso come ambiente nel quale aveva agito il “cervello” dei negoziatori del presunto sequestro della ragazza).
A dire il vero, l’errore della Maglie non è giustificabile, ma è – se vogliamo – quasi comprensibile, avendo copiato-incollato le scemenze scritte da altri in tutti questi anni. In particolare da un collega che più di altri e più volte si è distinto, proprio su questa circostanza, per la sua scorrettezza. Mi riferisco a Pino Nicotri, il quale sin dal suo primo libro sul caso Orlandi (“Mistero Vaticano”, pubblicato da Kaos edizioni nel giugno 2002) menzionava l’analisi del SISDE sul cosiddetto Mister X, omettendo di citare la fonte che l’aveva resa nota e cioè il mio articolo per L’Indipendente del 31 marzo 1994. Nicotri negli anni ha scritto altri libri sulla sparizione di Emanuela Orlandi e, sistematicamente, ha sempre omesso di citare chi lo aveva reso noto per la prima volta, lasciando intendere in modo surretizio che quella scoperta fosse merito delle sue ricerche.
Nicotri, per farla breve, si è appropriato in modo fraudolento del lavoro altrui.
Un vecchio furbacchione.
E vai con gli strafalcioni.
A pag. 121, parlando del presunto ruolo dell’Opus Dei, riportando le parole dell’avvocato Gianfranco Carpeoro, qualificato come maestro di Loggia, si legge: «Gianni Letta, il nipote di Gianni Letta, Marcello Dell’Utri… Tutti quanti attribuiscono questi personaggi alla massoneria e invece sono dell’Opus Dei». Gianni Letta, il nipote di Gianni Letta… Forse la Maglie voleva dire Enrico Letta, nipote di Gianni Letta.
A pag. 17 scopriamo un «Paul Casimir Marcinkus, direttore dello IOR». Errato. Monsignor Marcinkus era il presidente dell’Istituto per le Opere di Religione. Direttore generale (la sua carica formale era segretario ispettivo) era Luigi Mennini, morto il 12 agosto 1997.
Sorvolando sulla baraonda relativa alle (tante) pagine dedicate alla pista dello IOR di Marcinkus, allo scandalo del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, al presunto ruolo della malavita romana (Banda della Magliana) e agli strascichi degli ultimi anni con i recenti scandali e alle faide interne alla Curia e al trafugamento di documenti segreti delle finanze vaticane (Vatileaks e Vatileaks 2) e stendendo un velo pietoso su alcune sbalorditive e disarmanti congetture (pag. 136: «dietro la morte di Calvi e l’attentato al Pontefice, quindi, ci sarebbe la stessa mano»), il peggio viene sfiorato quando la Maglie scrive: «La pista russo-bulgara fu ipotizzata pochi giorni dopo l’attentato [a Piazza San Pietro, il 13 maggio 1983] da un comunicato del SISMI».
Circostanza inventata di sana pianta.
Agli atti delle istruttorie sull’attentato al Papa (quella istruita dal giudice Ilario Martella e quella condotta dal giudice Rosario Priore) non esiste alcun “comunicato” del servizio segreto militare sulla pista bulgara, peraltro diffuso pochi giorni dopo l’arresto del terrorista turco Ali Ağca.
Del tutto inventato.
Giornalismo creativo.
Se non fosse una storia tragica, potremmo pensare a una gag del Bagaglino con Martufello, Oreste Lionello e Leo Gullotta.
Ben poche sono le informazioni che combaciano con la realtà dei fatti e con le emergenze istruttorie. Scrive la Maglie a pag. 106: «L’ex terrorista turco collaborò fattivamente alle indagini dal dicembre 1981 fino al 22 giugno 1983, data della sparizione di Emanuela Orlandi».
Falso.
Ali Agça si aprì alla collaborazione con l’autorità giudiziaria italiana (nella persona del giudice istruttore Martella) alla fine di aprile del 1982 e proseguì fino alla chiusura dell’istruttoria sulla pista bulgara, il 26 ottobre del 1984. Bastava non dico studiare gli atti giudiziari, ma leggere il libro scritto dallo stesso Martella e pubblicato (per i tipi di Ponte alle Grazie) nel maggio del 2011 per evitare di scrivere sciocchezze:
«Il 29 aprile 1982 la direzione del carcere circondariale di Ascoli Piceno mi informa telefonicamente che il detenuto Mehmet Ali Ağca ha chiesto di incontrarmi per rendere dichiarazioni in merito al suo “operato” del 13 maggio in Piazza San Pietro. Con il successivo primo maggio ha inizio una lunga serie di interrogatori nel corso dei quali Agça fornisce molteplici riferimenti a fatti e persone che chiama in causa quali partecipanti al complotto. Si tratta dei cittadini turchi Oral Ḉelik, Ömer Bağci, Bekir Ḉelenk e Musa Serdar Ḉelebi e dei cittadini bulgari Seguei Ivanov Antonov, Todor Stoyanov Ayvazov e Jelio Kolev Vassilev che egli dice di avere conosciuto con i nomi rispettivamente di Bayramic, Sotir Kolev e Sotir Petrov».
In verità, le cose andarono in modo un po’ diverso: la direzione del carcere di Ascoli Piceno ebbe a informare il giudice istruttore qualche giorno prima rispetto alla data del 29 aprile 1982, tant’è che Martella già il 26 aprile, con un fono urgentissimo indirizzato al ministero di Grazia e Giustizia – Direzione generale per gli Istituti di Prevenzione e di Pena, richiedeva l’immediata traduzione a Roma del killer turco per essere interrogato. Ma questi dettagli non cambiano la realtà sostanziale dei fatti.
Il fono urgentissimo del giudice istruttore Ilario Martella del 26 aprile 1982
Ma il passaggio più delicato e grave – perché non solo è fuorviante, ma soprattutto perché suggerisce a un lettore non particolarmente esperto o preparato elementi alcuni veri, altri verosimili e altri ancora del tutto fasulli – è quello contenuto a pag. 19: «Nonostante le richieste di vario tipo e le presunte prove, l’Amerikano non aprì nessuna pista reale. Non furono mai prodotte evidenze del fatto che Emanuela fosse viva o di un reale collegamento tra il rapimento Orlandi e l’attentatore del Papa. Lo stesso Ali Ağca, ormai condannato definitivamente, si dissociò da quella che lui stesso definì un’azione criminale, dichiarandosi a favore del Vaticano».
Questo è un classico esempio di manipolazione involontaria del lettore. Se è grosso modo vero quanto riferito all’inizio e cioè al fatto che i presunti rapitori della ragazza (anche qui dobbiamo essere chiari, così come non c’è mai stata una prova inconfutabile dell’esistenza in vita dell’ostaggio, non è mai emerso in tutti questi anni un riscontro probatorio indubitabile sull’avvenuto sequestro) non hanno mai fornito un riscontro oggettivo al fatto che Emanuela fosse nelle loro mani, per altro verso è falso che l’attentatore del Papa si dissociò dall’ipotesi di scambio con la ragazza, così come proponevano i vari anonimi “negoziatori” a partire dal 5 luglio 1983.
Una sola volta, nella serata dell’8 luglio 1983, prima e dopo essere stato ascoltato dal sostituto procuratore Margherita Gerunda, il killer turco nel corso di una controversa conferenza stampa improvvisata nel cortile della Questura di Roma dichiarò quanto segue:
«Io sono contro questa azione criminosa, sono con la ragazza innocente, con la sua famiglia che sente dolore… Io non c’entro niente con questa storia. Rifiuto ogni libertà e ogni scambio con qualcuno. Sono con l’Italia e con il Vaticano».
I fatti dell’8 luglio 1983 sono ancora oggi avvolti dal mistero, poiché Ali Ağca – durante quella snervante giornata era rimasto tutto il giorno rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Rebibbia, a disposizione del giudice istruttore Ilario Martella che lo interrogò fino alle ore 17,30. Poi qualcuno decise di far uscire il detenuto. Sui motivi del suo trasferimento in Questura nel tardo pomeriggio e su chi permise all’attentatore del Papa di incontrare i giornalisti nel parleremo in un altro articolo, essendo questa una delle vicende più delicate delle indagini sul caso Orlandi.
Comunque, quella rassegnata dalla Maglie è la vulgata confezionata a suo tempo ad uso e consumo dell’opinione pubblica. È citata un po’ da tutti e in altri libri sull’argomento. In verità, le cose stanno diversamente.
Ecco i fatti.
Dopo la richiesta di scambio avanzata dai misteriosi negoziatori entrati in scena alle ore 12,50 del 5 luglio 1983 con una telefonata alla Sala Stampa vaticana e i successivi fatti dell’8 luglio in Questura, sei giorni dopo (il 14 luglio 1983), il terrorista turco, in via molto riservata, dal carcere scrisse una lettera a Papa Giovanni Paolo II nella quale citava – fra l’altro – il controverso caso di Patricia Hearst, nipote di uno dei più ricchi e potenti magnati americani nel campo dell’editoria a livello mondiale, William Randolm Hearst. La Hearst, detta Patty, venne rapita all’età di 19 anni nel suo appartamento in un residence di Berkeley, in California, il 4 febbraio 1974, da una strana organizzazione terroristica di neri di estrema sinistra denominata SLA (Symbionese Liberation Army), attiva tra il 1973 e il 1975.
Durante il sequestro, la ragazza si legò a uno dei suoi carcerieri, non volle essere liberata, diventò un membro attivo del gruppo, partecipando a una serie di azioni criminali come sequestri di persona, attentati dinamitardi e sanguinose rapine in banca. Il caso Hearst divenne noto nel mondo per la cosiddetta Sindrome di Stoccolma e cioè la patologica risposta psicologica in cui un ostaggio mostra un’apparente lealtà al suo rapitore.
La citazione del caso Hearst nella lettera del killer turco al Papa non è del tutto evidente e scontata.
In questa misteriosa missiva, dopo un lungo, articolato e criptico preambolo, Ali Ağca aderiva allo scambio con Emanuela Orlandi, sollecitando, in tal senso, il Santo Padre a prendere posizione per favorire la trattativa segreta con i rapitori della ragazza. Questo documento – del tutto inedito – ribalta i tanti luoghi comuni e le fantasiose ricostruzioni avanzate in questi anni, soprattutto dopo le “rivelazioni” sulla tomba di Enrico De Pedis a Sant’Apollinare (la basilica che sorge accanto all’omonimo palazzo dove – nel 1983 – aveva sede la scuola di musica sacra Ludovico Da Victoria dove prendeva lezioni di canto e flauto Emanuela Orlandi) e il presunto ruolo di alcuni gangster della Banda della Magliana nella sparizione della ragazza.
27 dicembre 1983: Papa Wojtyla incontra il killer turco nel carcere di Rebibbia
Troppo frettolosamente e sbrigativamente si è cercato di decontestualizzare il caso Orlandi dallo scenario nel quale maturò la sua scomparsa in pieno centro a Roma, cercando di banalizzare la vicenda, accollandola sic et simpliciter ad ambienti della malavita romana. Ma la realtà, come troppo spesso accade, è ben più complessa e articolata della banale trama di un libro.
La Maglie a pag. 113 pone a se stessa e al povero lettore la seguente domanda: «Qual è la chiave di volta per risolvere un mistero che dura da quasi quarant’anni».
La risposta è, purtroppo, semplice: evitare di pubblicare libri come questo, rotolandosi nel fango di patacche, bufale e falsi conclamati propalati proprio per inquinare sempre di più l’accertamento della verità.
Con tutto il rispetto Maria Giovanna…
(Gian Paolo Pelizzaro)
domenico
21/04/2023 alle 12:40
E’ un groviglio inestricabile. Dopo 40 anni è molto difficile giungere alla verità,tenuto conto del fatto che è implicato uno stato straniero. Sulla triste vicenda, molti hanno giocato le loro carte in una accozzaglia di mezze verità,superficilità, mala fede e menzogne. Non è più possibile separare il grano dal loglio,salvo a pensare che la verità della vicenda può giovare a sconfiggere i nemici interni di papa bergoglio. E qui pongo la domanda: come mai il papa ha fatto trascorrere 10 anni da quando è stato eletto al soglio di Pietro, per autorizzare finalmente l’apertura di una inchiesta sulla morte della ragazza e si decide a farlo appena un mese dopo dalla morte di Papa Ratzinger? Perchè ha fatto trascorrere tutto questo tempo senza far nulla per giungere alla verità? Forse ora quella verità potrebbe tornare proficua per mettere a tacere i nemici di una certa Chiesa, anche se la verità colpisce al cuore di quella chiesa stessa?
Rossella
25/04/2023 alle 19:33
Scritto micidiale contro la Maglie impregnato di malcelato disprezzo e voglia, realizzata, di distruggere il suo libro e, neanche tanto sotto sotto, la giornalista: troppe le sottolineature sulla mancanza di serietà dello scritto.
Tante puntualizzazioni vere e utili, tante altre (troppe) pignolerie inutili. Pochi leggeranno il libro della Maglie… Conclusione: tra la Maglie e Pelizzaro mi hanno confuso ulteriormente le idee.
A qualche cosa mi è invece servita la lettura dell’articolo di fondo di Affaritaliani di domenica scorsa. Intanto l’autore cita il libro della Maglie, dicendo che non l’ha letto e non lo leggerà:
Provano a (ri)uccidere Papa Wojtyla. I misteri del caso Emanuela Orlandi
Ripresa delle indagini a 360 gradi, ma con numeri reali
cinzia andrei
04/06/2023 alle 03:14
Letto e con minori strumenti critici, concordo sulla confusione e sull’ inutilità del libro, pieno di illazioni ma pieno di buchi:ad esempio,Maglie ripete che sulla tomba presunta di E. c’era una processione di persone che lasciano fiori. Da chi l’ ha saputo? Ha cercato di contattare queste persone per inquadrare com’ era nata la voce? Che cavolo di giornalista è?
E non tralasciamo il lato pettegolezzo della serva: Maglie, dopo avere scritto un paio di volte che la sera del 22 il commissariato rimanda a casa gli Orlandi, perché per accogliere una denuncia devono passare alcune ore dalla scomparsa, butta lì che Natalina va solo alla 7,30 del mattino successivo in gendarmeria a denunciare la sparizione della sorella: forse perché Emanuela in realtà godeva di una libertà inconsueta per una quindicenne e trascorreva abitualmente la notte fuori? Insomma,libro confuso, inutile e pure malignetto