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L’ assassinio di Graziella De Palo e Italo Toni
Perchè 42 anni di misteri
“Giustizia negata alle vittime per non toccare i palestinesi”

26/12/2022 Reggio Report pubblica la relazione dello storico Vladimiro Satta I rapporti tra Italia e organizzazioni palestinesi al tempo della scomparsa di Graziella De Palo e Italo Toni, presentata al convegno di Roma (Biblioteca Casanatense, 13 dicembre 2022) a 42 anni dall’assassinio dei due giornalisti.

DI VLADIMIRO SATTA*

I giornalisti Graziella De Palo e Italo Toni scomparvero il 2 settembre 1980, mentre si trovavano per lavoro in Libano. In quel periodo il Libano era dilaniato da una guerra civile tra molteplici fazioni, scoppiata nel 1975 e destinata a divampare fino ai primi anni Novanta. La sovranità sul territorio libanese, pertanto, in gran parte era esercitata non dalle autorità locali ma da soggetti diversi, alcuni dei quali stranieri.


Il Libano e i soggetti che lo controllavano

In Libano erano stanziati numerosi palestinesi, già dal 1948, la cui presenza divenne massiccia soprattutto a partire dal 1970, l’anno in cui vi si trasferirono molti dei profughi scacciati dalla Giordania con l’operazione denominata Settembre Nero.

Dopo il 1975 in Libano erano arrivate truppe della Siria e di Israele. La Siria era il più importante alleato mediorientale dell’Unione Sovietica e aveva buoni rapporti con i palestinesi, mentre Israele era alleata degli USA. Nell’area della capitale Beirut e dintorni, il settore Ovest dove soggiornarono De Palo e Toni era controllato dai palestinesi, mentre il settore Est era nelle mani di gruppi che si contrapponevano loro, vale a dire falangisti e cristiano-maroniti. Si tenga conto che, nell’applicare categorie politiche occidentali agli schieramenti che si contendevano il Libano, i palestinesi erano “di sinistra”, soprattutto lo FPLP (Fronte popolare di Lioberazione della Palestina di George Habbash, ndr.) mentre cristiano-maroniti e falangisti erano “di destra”.

I palestinesi erano avversari dei cristiano-maroniti e dei falangisti. Anzi, più di una volta i palestinesi, per sottrarsi alle loro responsabilità e depistare, accusarono falsamente proprio i cristiano-maroniti e i falangisti – come ha giustamente evidenziato da Gian Paolo Pelizzaro nella prefazione al volume Omicidio di Stato scritto da Nicola De Palo – il che avvenne anche a proposito della sparizione dei due giornalisti. Dunque, quando si sente parlare di “pista libanese” si badi a non confondere una fazione con l’altra.

Nel 1980 era in Libano anche un contingente militare internazionale, della missione UNIFIL, di cui l’Italia faceva parte con una cinquantina di elementi.

Ovviamente non erano loro i principali riferimenti dell’Italia a Beirut, però, bensì erano l‘ambasciata e il SISMI. Il responsabile del SISMI sul posto era il colonnello Giovannone, personaggio-chiave nella gestione dei rapporti tra Italia e organizzazioni palestinesi, le quali lo consideravano un grande amico. L’ambasciatore Stefano D’Andrea e il colonnello Stefano Giovannone erano in rotta di collisione già prima che De Palo e Toni si recassero in Libano, e proprio la scomparsa dei due giornalisti fu il detonatore di una vera e propria guerra tra i due Stefani, conclusasi con il trasferimento di D’Andrea in Danimarca, cioè con la vittoria di Giovannone.

I metodi con i quali Giovannone combatté e vinse la sua guerra contro l’ambasciatore furono talmente scorretti che nel 1986 portarono alla condanna in sede penale di un maresciallo che aveva coadiuvato Giovannone, il quale non fu giudicato perché era morto nel 1985.

I palestinesi dal 1964 avevano dato vita ad un organismo di vertice, l’OLP, che nel 1980 aveva il suo quartier generale a Beirut. L’OLP, con a capo Arafat, riuniva varie espressioni della realtà palestinese le quali comunque mantenevano una certa autonomia. Tra le componenti dell’OLP la più consistente era Al-Fatah, mentre lo FPLP di George Habbash era la più forte tra quelle che si caratterizzavano per estremismo, intransigenza e bellicosità maggiori rispetto ad Al-Fatah.

La magistratura italiana nel 1985 incriminò per la sparizione di De Palo e Toni proprio il leader dello FPLP, Habbash (ma non l’OLP né Arafat).

Un anno più tardi il Giudice Istruttore Squillante scrisse che era “in atti” la prova della responsabilità di “elementi dell’OLP” in ordine al sequestro e dell’omicidio di Toni e De Palo, con “forti indicazioni” a carico dello FPLP di Habbash, anche se prosciolse quest’ultimo per insufficienza di prove di una sua personale colpevolezza.


Si tenga a mente pure che lo FPLP era uno dei contraenti palestinesi di un patto segreto con l’Italia denominato “lodo Moro”, sul quale ci sarà da molto da parlare più avanti.

Il perdurante stato di guerra civile in cui versava il Libano all’epoca del viaggio di De Paolo e Toni rendeva il Paese un crocevia del traffico internazionale di armi e aveva stimolato l’allestimento di campi di addestramento per guerriglieri.

Il traffico di armi era un fenomeno che interessava anche l’Italia la quale da un lato era un Paese produttore e da un altro era un Paese consumatore, in quanto da noi era in corso la lotta armata condotta dalle Brigate Rosse nonché da altri gruppi terroristici. Vi erano segnali che, dopo il sequestro e omicidio di Moro, proprio sul terreno del traffico di armi i terroristi italiani stessero sviluppando collaborazioni con le organizzazioni mediorientali. Il traffico di armi era un tema al quale Graziella De Palo aveva dedicato svariati articoli ed era molto interessata. I campi di addestramento alla guerriglia, in passato, erano stati materia di un’inchiesta giornalistica di Italo Toni che aveva fatto scalpore. Quasi certamente furono questi i motivi per cui i due decisero di recarsi in Libano quando gli fu offerta questa possibilità da parte dell’OLP.

La situazione mediorientale all’epoca dei fatti

La situazione mediorientale generale, nel 1980 ma anche da molti anni prima, era segnata dal conflitto arabo-israeliano, che a più riprese si manifestò in forma di vere e proprie guerre. Negli anni Settanta la questione arabo-israeliana si era inasprita, in quanto i palestinesi – in gran parte per iniziativa di Habbash – avevano esportato sul suolo europeo gli attentati, allo scopo di costringere i Paesi colpiti ad occuparsi delle rivendicazioni concernenti la Palestina.

L’assalto contro gli atleti israeliani nel corso delle Olimpiadi di Monaco di Baviera, avvenuto nel settembre 1972, fu la vicenda di maggiore risonanza, ma non l’unica. Negli stessi anni Settanta, sullo scacchiere internazionale, l’importanza del mondo arabo era cresciuta, perché parte di esso era grande produttore di petrolio, una risorsa essenziale per l’Occidente industrializzato. I Paesi massimi produttori di petrolio, invero, non erano direttamente confinanti con la Palestina, tuttavia essendo arabi avevano con i palestinesi una comunanza etnica, religiosa e linguistica che li portava a sostenere la loro causa.

Nella seconda metà degli anni Settanta gli USA erano riusciti a convincere il leader egiziano Sadat a fare accordi di pace con gli israeliani. La firma di questi accordi, che portano il nome della località di Camp David, provocò tuttavia reazioni negative nel resto del mondo arabo.

Un po’ tutti i Paesi dell’Europa occidentale ebbero la duplice, impellente esigenza di ottenere dagli arabi sia gli approvvigionamenti energetici, sia la cessazione di atti terroristici. Provvidero in ordine sparso, poiché l’allora Comunità Economica Europea, progenitrice dell’attuale Unione Europea, non era in grado di elaborare risposte unitarie. Generalmente si trattava di Paesi legati all’Alleanza Atlantica e agli USA, che erano filo-israeliani. Dunque gli europei per ragioni di energia e di sicurezza interna avrebbero avuto convenienza ad assecondare gli arabi, mentre in base alle alleanze internazionali avrebbero dovuto stare dalla parte degli israeliani. Erano due esigenze divergenti, difficili da conciliare.

L’Italia risentiva particolarmente di questa contraddizione. Sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale il nostro Paese si era profondamente compenetrato con i sistemi occidentali, ma era anche assai a corto di risorse energetiche e nel Mediterraneo, dopo il passato coloniale, le erano rimaste fitte relazioni -sebbene complicate- con la Libia di Gheddafi, uno degli Stati più dotati di fonti energetiche e al tempo stesso uno dei più ostili verso Israele. Inoltre l’Italia era molto vulnerabile anche sul terreno della sicurezza interna: dal 1969 in poi era bersagliata da attacchi terroristici da parte di gruppi di estrema destra e di estrema sinistra, e se al terrorismo interno si fosse sommato o saldato un terrorismo di matrice internazionale i danni sarebbero aumentati esponenzialmente.

Per queste ragioni l’Italia, la cui politica estera nel decennio 1968-1978 ebbe quale principale artefice Aldo Moro, era portata a barcamenarsi tra i contendenti in Medio Oriente, come e più di quanto facevano altri Paesi. Il pendolo oscillava tra gesti di solidarietà con Israele e altri di solidarietà con gli arabi; si è detto, a mio avviso fondatamente, che negli anni Settanta l’Italia fu “sempre più con gli arabi”, ma va aggiunto che l’Italia tenne sempre fermo il riconoscimento del diritto di Israele a sopravvivere e a esistere in pace, mentre l’OLP aveva nel suo statuto la distruzione di Israele.

Vediamo allora in quale maniera l’Italia si regolò nelle sue relazioni con gli arabi, con particolare riferimento alle questioni di giustizia connesse alle attività criminali compiute da militanti palestinesi, l’ambito nel quale ricade la fine di Graziella De Palo e di Italo Toni.


Lodo Moro: origini, contenuti, protagonisti

Il problema della protezione dell’Italia da atti terroristici di matrice palestinese – o, da altro punto di vista, degli spazi per l’azione dei palestinesi in Italia – fu affrontato per mezzo di accordi diretti tra il nostro Paese e le organizzazioni palestinesi stesse. I patti furono stretti verso la fine del 1973, all’epoca erano segreti e in una certa misura lo sono ancora oggi.

Questi accordi, ideati per dare una risposta organica, preordinata e non episodica a questioni che si stavano già ponendo in casi concreti sono comunemente chiamati “lodo Moro”, dal nome dello statista italiano che ne fu promotore e massimo garante finché rimase in vita. Il “lodo Moro” è uno snodo ineludibile per l’esame di molteplici casi giudiziari: De Palo-Toni, traffico di armi, Argo-16, strage di Bologna, forse anche Ustica e attentato presso Sinagoga di Roma.

Gli accordi furono presi in due tempi; inizialmente tra Italia e OLP, in autunno, ma il 17 dicembre dello stesso 1973 frange palestinesi che non erano sotto il controllo di Arafat eseguirono una strage all’aeroporto di Fiumicino e pertanto si rese necessario fare partecipi delle intese anche i gruppi combattenti che precedentemente ne erano rimasti fuori. Ripeto che tra le formazioni aderenti al patto c’era lo FPLP, il quale sarà protagonista di una crisi del “lodo Moro” verificatasi anni dopo.

Il fatto che alcuni Stati arabi, – ad esempio la Libia – dal canto loro spalleggiassero gruppi palestinesi bellicosi – ad esempio lo FPLP – non è sufficiente per affermare che partecipassero anch’essi al “lodo Moro” o addirittura ne fossero i veri protagonisti di parte mediorientale.

Qualificate e plurime testimonianze sia di parte italiana che di parte palestinese, insieme a documenti che fanno esplicitamente riferimento agli accordi di fine 1973 consentono di affermare oltre ogni ragionevole dubbio che il “lodo Moro” esistette davvero, nonostante i dinieghi vecchi e nuovi da parte di qualcuno. Persistono semmai margini di incertezza riguardo ai contenuti del “lodo Moro”, perché finora non è mai uscito fuori un testo scritto di esso ed è anzi plausibile che gli accordi segreti siano stati verbali, come talune fonti ci dicono.

Nel 1973 Italia e palestinesi concordarono reciproche concessioni: le fonti al momento disponibili convergono sul fatto che, fondamentalmente, i palestinesi si sarebbero astenuti da attacchi terroristici contro il nostro Paese e contro i cittadini italiani in cambio di libertà di movimento e di svolgimento di traffici illeciti sul nostro territorio, – compreso il traffico di armi – nonché di impunità per i loro militanti che fossero venuti a trovarsi nei guai con la giustizia. Secondo talune versioni la protezione da attacchi, però, non sarebbe valsa per gli italiani di origine ebraica né per quelli che collaboravano con Israele, il che potrebbe avere a che fare con l’attentato contro la Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982.

Alcuni spunti ricavabili da inchieste giudiziarie autorizzano ad ipotizzare che le organizzazioni palestinesi abbiano ricevuto anche finanziamenti dall’Italia, sotto forma di tangenti relative a grandi contratti siglati da imprese italiane nei Paesi arabi, o addirittura armamenti.

E’ presumibile quindi che nell’ottica italiana le applicazioni del “lodo Moro”, trattandosi di un patto ispirato dalla preoccupazione di tenersi buoni i palestinesi, non fossero rigidamente limitate entro i confini degli accordi verbali stabiliti nel 1973, ma tendessero ad espandersi. Il Giudice Istruttore Squillante, che nell’inchiesta sul caso De Palo-Toni costrinse il Direttore del SISMI a confessare di avere mentito circa l’identificazione dei cadaveri giacenti in un ospedale di Beirut, scrisse in ordinanza/sentenza che Santovito era arrivato a questo “per salvaguardare la buona immagine dell’OLP (…) per favorire i palestinesi“.

A mio parere, questo atteggiamento di accondiscendenza verso i palestinesi, portato all’estremo, è la causa profonda dell’ostruzionismo contro l’accertamento della verità purtroppo praticato dalla parte prevalente degli apparati italiani dopo la sparizione di De Palo e di Toni. Si noti altresì che il Santovito mentitore “per salvaguardare la buona immagine dell’OLP” è la stessa persona che la magistratura italiana ha condannato per l’operazione di depistaggio denominata “Terrore sui treni” riguardante la strage di Bologna del 2 agosto 1980.

Per lungo tempo l’implementazione del “lodo Moro” fu opera di una cordata facente capo a Moro stesso, con Giovannone in prima fila. Lo si evince già da alcune lettere scritte da Moro durante il sequestro di cui fu vittima, ed è confermato dal giudice Mastelloni il quale ha fatto nomi di personaggi tutti vicini a lui che, in caso di necessità, dovevano provvedere ad attivare le procedure predisposte a favore di terroristi dello FPLP.

Inoltre, non tutti i politici erano informati del lodo, come dimostra il dibattito parlamentare del 1977 nel quale il sottosegretario Dell’Andro, un fedele moroteo, negò categoricamente l’esistenza di accordi segreti per la scarcerazione di terroristi mediorientali subodorata da interroganti che facevano parte della maggioranza su cui si basava il governo Andreotti della “non sfiducia”, il liberale Costa e il socialdemocratico Preti.

Addirittura, fino all’episodio di Ortona di novembre 1979 non erano stati ufficialmente informati del “lodo” neppure il Presidente del Consiglio Cossiga, già Ministro dell’Interno, e il sottosegretario con delega ai servizi segreti Mazzola, stando alle dichiarazioni di Cossiga stesso. Tenere presente che la gestione del “lodo Moro” originariamente era ristretta ad una cerchia rende più comprensibili sia il fatto che tra 1979 e 1980, quando Moro non c’era più, il governo Cossiga abbia tentato di cambiare strada, sia la lotta tra D’Andrea che era estraneo al “lodo” e Giovannone che invece era impegnatissimo a farlo funzionare.


Lodo Moro: illegalità e Ragione di Stato

L’accordo tra Italia e organizzazioni palestinesi, in quanto includeva l’impunità per i militanti sotto accusa e traffici illeciti, era sicuramente illegale sul piano giuridico; d’altra parte, poiché era motivato dalla volontà di mettere l’Italia al riparo da attentati, era sicuramente riconducibile al principio della Ragione di Stato. Giustizia contro sicurezza, in un certo senso. Essendo in gioco valori di grande importanza che si presentavano in conflitto, è comprensibile che sul “lodo Moro” siano stati espressi giudizi di valore diversi, persino diametralmente opposti. Lasciando a ciascuno il suo personale giudizio, è opportuno mettere in luce entrambe le facce della medaglia.

L’illegalità, perché essa aiuta a comprendere i dinieghi circa l’esistenza del “lodo” che sono stati opposti da soggetti i quali, avendo contribuito a tradurlo in pratica, ammettendone l’illegalità diventerebbero rei confessi in termini giudiziari. Le descrizioni edulcorate del “lodo Moro” che, per interesse, mirano a farlo apparire rientrante nei binari della legalità espungendone gli aspetti più scabrosi, fino ad oggi sono state purtroppo largamente recepite dalla magistratura italiana, che mi auguro riesca a maturare prossimamente una migliore conoscenza storica sull’argomento e ne tragga le conseguenze.

La “Ragion di Stato“, a sua volta, va messa in rilievo per comprendere come mai, per decenni, intorno ai rapporti tra Italia e palestinesi – e dunque anche nel procedimento per il caso di De Palo e di Toni – sia stato posto il segreto di Stato, tale segreto sia stato ripetutamente confermato da governi di ogni orientamento politico e, alla scadenza temporale del segreto di Stato, sulla materia persista la massima segretezza consentita dalla legge, cioè la classifica di “segretissimo”. E’ in nome della Ragione di Stato, del resto, che pure altri Paesi i quali, come sappiamo, erano potenziali teatri di attacchi terroristici ad opera di palestinesi si tutelarono dal pericolo facendo accordi sottobanco con questi ultimi, simili al “lodo Moro” italiano.

Naturalmente il “lodo Moro” era pienamente compatibile con ulteriori accordi, di altra natura, tra Italia e mondo arabo, a livello di Stati: accordi politici, economico-finanziari, energetici, e altro ancora. Anzi, il “lodo Moro” propiziava le intese e le collaborazioni tra il nostro Paese e gli arabi in tutti i settori, perché metteva l’Italia in buona luce agli occhi dei Paesi arabi che appoggiavano i palestinesi e, vicendevolmente, gli intensi e buoni rapporti di affari tra Italia e quei Paesi inducevano i palestinesi a vedere di buon occhio il partner dei governi loro amici. Sarebbe un errore, tuttavia, confondere il “lodo Moro” con altri accordi: la questione degli attentati terroristici passava attraverso il “lodo Moro”.


La crisi del “lodo Moro” tra 1979 e 1980

Di fatto, dopo l’attentato del 17 dicembre 1973 a Fiumicino i terroristi palestinesi risparmiarono l’Italia fino almeno al 1980. E’ incontrovertibile che in quel periodo il “lodo Moro” funzionò, insomma. Ed è altrettanto incontrovertibile che a novembre 1979 il “lodo” entrò in crisi.

L’episodio che innescò la crisi fu il sequestro di materiale bellico a Ortona, con gli arresti dei responsabili, tra cui Saleh, elemento di spicco dello FPLP residente in Italia, i quali furono mandati a processo. Non è chiaro se l’incidente di Ortona sia stato fortuito o addirittura provocato dall’Italia, ma fatto sta che, contrariamente a quanto previsto dal “lodo Moro”, le autorità italiane non intervennero per fare scarcerare gli arrestati né per scongiurare il processo. Quindi, quanto meno colsero la palla al balzo e presero una decisione altamente significativa, nonostante le proteste dello FPLP, dapprima espresse attraverso canali riservati, poi rese note dallo stesso FPLP con una lettera al Tribunale di Chieti poiché il nostro governo le ignorava. I palestinesi, appunto, accusavano l’Italia di avere violato i patti e di continuare a violarli lasciando che il relativo procedimento giudiziario facesse il suo corso.

E’ necessario domandarsi quindi perché l’Italia, a fine 1979, avesse intenzione di sottrarsi al “lodo Moro”. Innanzi tutto, sussistevano premesse di politica interna ed internazionale per un’eventuale correzione di rotta da parte italiana.

Aldo Moro, che era stato il nume tutelare del patto segreto, non c’era più ed era in carica un Presidente del Consiglio, Cossiga, un po’ più atlantista del suo predecessore Andreotti, proprio mentre l’atlantismo stava tornando in auge, perché a fine anni Settanta vi fu un brusco peggioramento dei rapporti tra Est e Ovest (risalgono a quel periodo la denuncia della rottura dell’equilibrio missilistico in Europa, l’invasione sovietica in Afghanistan, il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca da parte degli USA, eccetera).

Era pertanto necessario rinsaldare i rispettivi schieramenti, cosa che per l’Italia significava anche spostare l’equilibrio fra Israele e arabi un po’ meno dalla parte dei secondi.

Il fattore principale, comunque, a mio modo di vedere fu che dal 1973 al 1979 in Italia era enormemente aumentata la pericolosità del terrorismo interno e si erano aperte prospettive di sinergie tra brigatismo rosso e terrorismo mediorientale.

Le Brigate Rosse, che nel 1973 erano poca cosa, dopo il sequestro e omicidio Moro era diventate il pericolo pubblico numero uno.

Analogamente a tutte le forze dell’estrema sinistra italiana, le Brigate Rosse parteggiavano per la causa palestinese.

Già nella prima metà degli anni Settanta le Brigate Rosse avevano avuto contatti con loro, che però all’epoca non si erano sviluppati granché a causa della pochezza del gruppo armato italiano e anche a causa di un’abile manovra dei servizi segreti italiani i quali, avendo presagito i gravi rischi connessi ad una saldatura tra i terroristi italiani e i terroristi mediorientali, all’indomani della cattura di Curcio e Franceschini e la morte di Cagol avevano insinuato nei palestinesi il sospetto che i nuovi vertici delle BR fossero manovrati dalla CIA.

Dal 1976 al 1978 quindi i palestinesi avevano interrotto i rapporti con i terroristi italiani ma poi, di fronte alla prova di forza operativa fornita dalle BR con la strage di via Fani e il lungo sequestro di Moro, ci avevano ripensato: un gruppo come le BR poteva essere un buon partner per operazioni in Italia, quali la creazione di depositi clandestini di armi sul nostro territorio. Ecco allora le prime spedizioni di armi, imbarcate in Medio Oriente e trasportate nel nostro Paese dagli italiani stessi, che in cambio del favore ottenevano una parte del carico. Ecco allora, però, che in Italia qualcuno pensò che fosse arrivato il momento di reagire.

E’ illuminante la divergenza emersa a luglio 1980 durante le audizioni della Commissione Moro-1 tra il generale dei Carabinieri Dalla Chiesa e il direttore del SISMI Santovito riguardo al traffico di armi in territorio italiano, ai rapporti tra brigatismo rosso e palestinesi, e alla figura di Saleh; Dalla Chiesa ne sottolineò la pericolosità, mentre Santovito minimizzò.

Dalla sentenza di primo grado sull’episodio di Ortona emessa nell’inverno 1980 fino all’estate dello stesso anno si registra un crescendo di minacce palestinesi, divenute di dominio pubblico molto più tardi, che venivano riferite alle autorità italiane dai nostri agenti a contatto con i mediorientali.

Queste comunicazioni riservate erano molto allarmanti, e non è affatto vero che, come decenni più tardi ha dichiarato l’ufficiale del SISMI Armando Sportelli (diretto superiore di Giovannone) ai magistrati, i quali gli hanno creduto, il vertice europeo a Venezia di metà giugno 1980 avesse dissolto le tensioni intorno agli sviluppi della vicenda di Ortona. Al contrario, i palestinesi furono ancora più irritati con l’Italia dopo il vertice di Venezia, e il SISMI lo sapeva e lo disse apertamente in un’audizione parlamentare di inizio luglio.

(…)

Mi sono accorto, preparando il mio intervento odierno, che la prova più eloquente di quanto i palestinesi anche dopo Venezia ce l’avessero con il governo italiano, accusato di avere loro voltato le spalle, ce l’ha lasciata proprio Graziella De Palo: è la sua intervista a Nemer Hammad, dell’OLP, pubblicata da Paese Sera il 14 giugno 1980. In essa Hammad lamentava che “il nuovo governo non solo si è rifiutato di fare passi avanti, ma è addirittura tornato indietro” e che la politica del Cossiga-2 fosse ignorare totalmente le istanze dell’OLP.

Paese Sera, 14 giugno 1980: l’intervista di Graziella De Palo a Nemmer Hammad


Infatti, documenti originariamente riservati datati 27 giugno e 11 luglio 1980 dimostrano che in quella date le minacce continuavano e si erano aggravate.

LA STRAGE DI BOLOGNA, LA SCOMPARSA DI GRAZIELLA DE PALO E ITALO TONI, LA CORTINA FUMOGENA DEL SISMI, IL TRASFERIMENTO DELL’AMBASCIATORE D’ANDREA

Come tutti sanno, il 2 agosto del 1980 ci fu la strage alla stazione di Bologna. Un mese dopo, il 2 settembre, Graziella De Palo e Italo Toni sparirono in una zona del Libano controllata dai palestinesi e il SISMI, insieme ai vertici della Farnesina, alzò una cortina fumogena e neutralizzò l’ambasciatore D’Andrea il quale era convinto che i palestinesi fossero colpevoli della fine dei due giornalisti.

In altre parole, a settembre del 1980 i nostri servizi segreti e il nostro governo misero al primo posto gli interessi dei palestinesi. Eppure, teoricamente, ai primi di settembre 1980 l’Italia avrebbe dovuto regolarsi ancora alla maniera di metà luglio: se a metà luglio era intransigente nei confronti di chi era responsabile di un trasporto di materiale bellico, in settembre avrebbe dovuto essere inflessibile con chi era responsabile di un duplice omicidio. E invece no.

Tutto ciò, a mio avviso, significa che l’Italia, dopo avere tenuto testa ai palestinesi e alle loro minacce da novembre 1979 a metà luglio 1980, aveva fatto marcia indietro tra la seconda metà di luglio e i primi di settembre. Dato che a settembre i governanti e gli uomini degli apparati addetti ai rapporti con i palestinesi erano gli stessi di luglio, bisogna concludere dietro al cambiamento deve celarsi un evento sopravvenuto nel frattempo. Quale evento di fine luglio, o di agosto o inizio settembre può avere indotto il nostro Paese a piegarsi? Quale, se non la strage del 2 agosto alla stazione di Bologna?


CONCLUSIONE

In conclusione, ritengo che le resistenze incontrate nel cammino della ricostruzione della fine di Graziella de Palo e di Italo Toni e del perseguimento dei colpevoli risiedano essenzialmente nella scelta di coltivare relazioni amichevoli con i palestinesi anche a costo di negare giustizia alle due vittime. E ritengo che fino ad oggi la Ragione di Stato abbia schiacciato le istanze di verità, nel caso giudiziario di De Palo e Toni così come in altri casi afferenti al “lodo Moro” di cui dicevo all’inizio. Mi auguro vivamente che si possa pervenire ad un bilanciamento.

Il governo Draghi ha manifestato sensibilità al problema e ha disposto l’accessibilità e fruibilità di una parte delle carte di Giovannone ormai non più coperte da segreto di Stato, ovvero di 32 documenti, circa un quinto del totale. E’ notizia di questi giorni che il governo Meloni si impegna a completare l’opera. Si tratta di un lavoro delicato, da svolgere con la necessaria prudenza, che richiederà tempo.

E’ prevedibile che, quando sarà stato completato, le carte in oggetto diventeranno imprescindibili per l’esame dei rapporti tra Italia e organizzazioni palestinesi ai tempi del “lodo Moro” e che, attraverso una virtuosa collaborazione tra studiosi e magistrati, esse potranno dare rilevanti contributi alle indagini sul caso De Palo-Toni, riaperte nel 2019, nonché ad altri procedimenti giudiziari, tra cui quello in corso relativo alla strage di Bologna. Ferma restando la necessità di non recare danno ai supremi interessi della Repubblica, è tuttavia doveroso assicurarsi che le future sentenze non siano viziate da difetti di conoscenza.

*VLADIMIRO SATTA, storico e scrittore, specializzato nella storia della Repubblica Italia, del terrorismo e degli anni di piombo


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