17/7/2021 – E’ il libreria il nuovo libro di Marco Ferrari “Ahi Sudamerica! Oriundi, tango e fútbol” per i tipi di Laterza, collana “I Robinson/Storie di questo mondo”. Il volume racconta l’emigrazione italiana in Sud America. Marco Ferrari, scrittore spezzino con alle spalle un lungo curriculum in giro per il mondo (da “Alla rivoluzione sulla Due Cavalli” a “L’incredibile storia di Antonio Salazar: il dittatore che morì due volte”) spiega il perché di questo libro dedicato al ruolo degli italiani nel mondo latino-americano.
“Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento milioni di italiani, soprattutto meridionali, sbarcarono in Sud America. Ogni anno a Rio de Janeiro e Santos i piroscafi scaricavano migliaia di italiani. Nel solo anno di grazia 1891 su 215.239 ingressi in Brasile, 132.326 erano italiani. Dal 1887 al 1902 sbarcarono 1.129.265 italiani che andarono a sostituire gli schiavi neri delle piantagioni del caffè. Oggi si calcola che nel paese della bossa nova vivano 25-30 milioni di discendenti di immigrati italiani, il 15% della sola popolazione urbana. São Paulo è la città con il maggior numero di tifosi del Napoli al mondo.
A Buenos Aires funzionava un Hotel de los Inmigrantes, un edificio lungo e squadrato, come una caserma di diecimila metri quadrati, appena discosto dalle rive dal fiume, in Avenida Atlantica Argentina. È il luogo che simboleggia l’approdo di milioni di italiani sul Rio de la Plata. Oggi in quell’edificio è conservata una banca dati di circa 4 milioni di registrazioni d’ingresso con la catalogazione degli sbarchi dei migranti tra il 1882 e il 1927. In Uruguay su tre milioni e mezzo di abitanti, il 40 per cento ha discendenze italiane”.
Ferrari, che ruolo hanno avuto gli italiani in Sud America?
“Già negli anni Trenta a Buenos Aires e Montevideo gli italiani superavano per numero gli immigrati degli altri paesi e i nativi messi assieme. E’ il tempo in cui “un argentino è un italiano che parla spagnolo ma pensa di essere inglese”. Per arricchire le nascenti metropoli furono invitati, a diversi riprese, maestri architetti e artisti italiani cesellatori di forbite ricchezze urbanistiche e monumentali come Palazzo Barolo a Buenos Aires. Montevideo, poi, è stata forgiata dagli italiani: Carlo Zucchi – architetto di Reggio Emilia – e il Teatro Solis ideato nel 1841; Luigi Andreoni per l’Ospedale italiano Umberto I° del 1890; Giovanni Tosi e il progetto dell’Hotel National del 1885; gli scultori carraresi Giuseppe Livi, Carlo Piccoli e Giuseppe Del Vecchio e le loro marmoree statue al Cimitero Centrale. Oggi solo le fotografie e i documentari in bianco e nero ci descrivono il cambio d’identità di tanti emigrati italiani. Poi i controlli della polizia di frontiera che non erano così severi come a Ellis Island. Quindi il primo respiro vero, a pieni polmoni, l’impatto con un mondo sconosciuto e diverso ma in fin dei conti non opposto al luogo di partenza”.
E poi gli italiani diventano protagonisti del nuovo sport: il football. Cosa creano?
“Nascono squadre mitiche, dagli Xenienses del Boca Juniors ai millionarios del River Plate, senza dimenticare il Club Màrtires de Chicago, anarchico e socialista, e l’Indipendiente, ovvero “Indipendientes de la patronal”. E dall’altra parte, come in un romanzo di Guareschi, il salesiano Lorenzo Massa faceva scendere in campo il San Lorenzo, la squadra oggi tifata anche da papa Francesco. Ma la febbre del calcio si trasmette a tutto il continente e gli italiani sono sempre i portatori sani di questa epidemia, da San Paolo del Brasile a Caracas, da Asunción a Montevideo, dove nasce il Peñarol, fondato da emigranti di Pinerolo”.
Poi venne il tempo degli oriundi, il ritorno in patria di tanti figli di emigranti. Come mai?
“In tutte queste squadre presto cominciano a crescere gli “oriundi”, ovvero tutti coloro che scelsero il pallone come metodo più sicuro per percorrere a ritroso la strada verso l’Italia. Scopriremo così le imprese e le avventure improbabili di calciatori geniali e destinati a segnare la storia: dal capitano del Bologna Badini al trio delle meraviglie del Torino fino al grandioso Guillermo Antonio Stabile, el filtrador. Così tra i tangueros della Juventus, da Cesarini a Sivori, il Bologna uruguaiano voluto da Mussolini e i romanisti, “traditori della patria”, in fuga dal regime fascista, ci sorprenderemo e commuoveremo di fronte alle vicende di questi figli dell’Europa rovesciata e depositata dall’altra parte dell’Atlantico, come scriveva Jorge Luis Borges. Storie malinconiche e surreali in cui pure Lionel Messi, la pulga, può scoprire di avere qualcosa in comune con Giacomo Leopardi.
Quale è la storia più emblematica tra gli oriundi citati nel libro?
“Quella di Angelo Badini, un rimpatriato dall’Argentina, il quale, avendo avuto esperienze calcistiche nello Sparta di Rosario, fece un provino ed entrò nel Bologna. Sapeva dipingere, era erudito, parlava correttamente italiano e castigliano, era un centromediano metodista di grande valore, capitano per otto anni dei rossoblu. A Bologna ricevette il diploma di architettura dall’Accademia di Belle Arti per cui nella squadra lo chiamavano Il Professore.
Crebbe con Angelo Schiavio, fu nominato allenatore-giocatore, era il responsabile delle giovanili, in campo era pieno di grinta ma anche di capacità tecniche. Ma il destino avverso era in agguato e si portò via per sempre Angiolino il 12 febbraio 1921.
Addio capitano, mio capitano! Sotto un cielo grigio ed enfio che già odorava di neve, domenica 9 gennaio i bolognesi affrontarono i virgiliani del Mantova. Finita la partita gli misurarono la febbre: il termometro segnava 39. Tornato a casa, si mise a letto, indebolito. La temperatura non diminuiva e allora il dottore procedette ad esami approfonditi. Il verdetto fu infausto: Angiolino era affetto da setticemia, una terribile infezione del sangue.
La sua gioventù sfibrava in un foglio bianco un po’ stropicciato dove erano indicati i valori dell’esame emocromocitometrico. La nebbia dei pensieri stemperava gli echi dello stadio in cui aveva incontrato la gloria sportiva e il sottofondo di una balera in cui aveva incontrato l’amore. Si spense lentamente con l’incognita negli occhi, quella degli addii e delle epoche che terminano per sempre. La sua era stata troppo bella, felice ma rapida”.