DI GIAN PAOLO PELIZZARO E GABRIELE PARADISI
15/2/2021 – Può un giudice (inteso come collegio giudicante) riportare in sentenza fatti e circostanze non solo destituiti di fondamento, ma perfino alterare fatti storici? È una domanda molto delicata, ma nasce dalla sbalorditiva analisi delle motivazioni della sentenza di condanna all’ergastolo dell’ex Nar Gilberto Cavallini da parte della Corte di Assise di Bologna, depositate lo scorso 7 gennaio.
Non è nostra abitudine commentare le sentenze, ma in questo caso, essendo stata emessa in nome del popolo italiano di cui noi facciamo parte, e soprattutto perché un intero capitolo (il 38°) di questa “monumentale” sentenza è dedicato alla cosiddetta pista palestinese e cioè alla disamina della “Relazione sul gruppo Separat e il contesto dell’attentato del 2 agosto 1980” che uno dei due autori di questo articolo insieme al giudice di Palermo Lorenzo Matassa depositarono alla Commissione Mitrokhin il 23 febbraio 2006, abbiamo il dovere morale e civile di porre questa domanda. Noi non entriamo nel merito dei motivi che hanno portato alla condanna dell’imputato. Questi attengono alla sfera dell’operato del giudice e alla sua coscienza e quindi sono criticabili o contestabili solo nei termini previsti per legge. A noi, qui, interessa solo capire se il giudice di una corte, nel redigere una sentenza (in questo caso di condanna all’ergastolo), possa o meno svolgere le sue motivazioni argomentando – come accennato – sulla base di una sequela di errori, sviste, inesattezze, equivoci e malintesi, arrivando perfino a travisare fatti storici.
Nella frenesia di tentare di demolire l’impianto dell’elaborato Matassa-Pelizzaro, in sentenza si legge: «La Relazione afferma la tesi che la strage sia stata una ritorsione da parte delle organizzazioni palestinesi per la violazione del c.d. “Lodo Moro”, conseguente alla nota vicenda dei missili avvenuta ad Ortona e all’arresto di coloro che li trasportavano, nonché di Abu Ayad». Qui apprendiamo la clamorosa “notizia” dell’arresto del braccio destro di Arafat, Abu Ayad, a Bologna il 13 novembre 1979 nell’ambito delle indagini sul traffico dei missili di Ortona. Ayad era il capo dell’apparato di sicurezza di Fatah, il partito di Arafat che aveva la maggioranza in seno all’OLP.
Abu Ayad era stato il leader di Settembre Nero, l’organizzazione terroristica palestinese emanazione dell’apparato Jihaz al-Rasd (il servizio di sicurezza) alla quale sono attribuiti, fra l’altro, l’attacco contro la squadra olimpica israeliana alle Olimpiadi di Monaco (5-6 settembre 1972) e la strage all’aeroporto di Fiumicino (17 dicembre 1973) la più grave dopo quella di Bologna e del tutto omessa fra tutte le stragi citate in sentenza. In verità, Ayad, nome di battaglia di Salah Khalaf, (ma in sentenza il suo nome viene sistematicamente storpiato in Saleh), non venne mai arrestato, tantomeno a Bologna. Era uno dei personaggi più ricercati al mondo, soprattutto dal Mossad, ma mai nessuno – fino al 14 gennaio 1991 quando venne assassinato nella sua villa a Cartagine in Tunisia insieme al suo vice Abu Hol – riuscì a catturarlo. Ayad è passato alla storia dell’inchiesta sulla strage di Bologna per aver dato il via al primo depistaggio delle indagini.
È proprio Abu Ayad a confermare le sue falsità (già propalate al giornale arabo As Safir il 16 settembre 1980) nella nota intervista a Rita Porena, giornalista militante del FPLP in stretto contatto con il colonnello Stefano Giovannone capo centro SISMI a Beirut, pubblicata il 19 settembre 1980 sul giornale elvetico Corriere del Ticino. Secondo Ayad, l’attentato alla stazione ferroviaria sarebbe stato compiuto da estremisti di destra italiani addestrati nei campi delle destre maronite (Kataeb) in Libano. Quella intervista di Ayad ha costituito, per i giudici, la “genesi” della strategia depistante dei nostri servizi segreti dell’epoca.
L’inopinato scambio di persona si ripete a pag. 1781: «Sulla base di ciò, la Relazione evidenzia quindi il timore che i Servizi nutrivano, nel mese di luglio 1980, di ritorsioni nei confronti dello Stato italiano da parte del FPLP, anche in considerazione della sorte di Abu Ayad alias Saleh Khalaf, per il quale si poteva prospettare una lunga custodia cautelare e un eventuale inasprimento della condanna, alla luce delle severe e ragionevoli argomentazioni in punto di diritto che la pubblica accusa aveva svolto nel proprio atto di appello».
Come storicamente noto, Ayad non è mai stato né arrestato, né processato, né condannato per la vicenda dei missili di Ortona. Ciò che si legge in sentenza non corrisponde al vero.
Ma allora chi venne arrestato a Bologna il 13 novembre 1979? Risposta: Abu Anzeh Saleh, cittadino giordano di origini palestinesi rappresentante in Italia del Fronte popolare per la liberazione della Palestina di George Habbash, perché coinvolto nel traffico di due lanciamissili da guerra terra-aria di fabbricazione sovietica Sam 7 Strela sequestrati nel furgone di tre militanti dell’Autonomia operaia romana la notte tra il 7 e l’8 novembre 1979 nei pressi del porto di Ortona. Il FPLP era il secondo “partito” di maggioranza dell’OLP. Saleh, che era in contatto diretto con il terrorista internazionale Carlos attraverso la casella postale 904 attiva alle Poste di Bologna, sarebbe stato così «un modesto esponente del FPLP in Italia», «un soggetto di terzo o quarto piano» che non solo nel 1974 gli venne consegnata una dichiarazione di garanzia controfirmata nientemeno che dall’allora direttore del SID, ammiraglio Mario Casardi, che era anche autorità nazionale per la sicurezza, ma che addirittura costrinse nel luglio del 1980 – così come ammesso ai pm di Bologna nel 2014 dal diretto interessato – il capo della 2ª Divisione del SISMI, Armando Sportelli, a recarsi dai giudici di Chieti e L’Aquila per chiedere indulgenza nei confronti dell’emissario del FPLP perché c’era il concreto rischio di ritorsione palestinese alla sua mancata scarcerazione.
Scrive sul punto la Procura di Bologna nella richiesta di archiviazione del 30 luglio 2014, relativa a Thomas Kram e Christa-Margot Fröhlich: «Nonostante il cauto riserbo militare, Armando Sportelli non è, tuttavia, riuscito a celare un’allusione ad ambigui accordi, incautamente stretti da Stefano Giovannone con i dirigenti palestinesi, che avevano causato l’allarme dei servizi di sicurezza nazionali per la minacciata reazione palestinese per i fatti di Ortona, inducendo lo stesso Sportelli a recarsi personalmente a chiedere clemenza ai magistrati abruzzesi, senza alcun risultato». Questo accadeva nel luglio del 1980. Ma questa straordinaria circostanza è stata del tutto sottovalutata in sentenza.
Comunque, l’errore sullo scambio di persona tra Abu Ayad e Abu Anzeh Saleh viene reiterato a pag. 1778: «Abu Ayad, alias Saleh Khalaf, militante del FPLP, sarebbe stato il garante per la consegna dei missili, destinati alla resistenza palestinese». Qui Ayad da braccio destro di Arafat e numero due di Fatah viene presentato come l’esponente del FPLP di Habbash coinvolto nei fatti di Ortona.
E ancora, a pag. 1798: «Giovannone, fiduciario del Santovito piduista (e quindi di Gelli) a capo del SISMI, approfittando della sua libertà di azione e della propria supposta immunità, è la stessa persona che in tutta velocità organizzò il depistaggio imperniato sulla “pista libanese” con la complicità dei sodali Porena e Abu Saleh (infiltrato su entrambe le sponde)». Tutto sbagliato.
Storicamente e giudiziariamente è accertato che il depistaggio fu organizzato da Abu Ayad, capo del servizio di sicurezza dell’OLP (e non da Saleh che era in carcere da dieci mesi!). Solo dopo le prime “rivelazioni” di Ayad alla stampa araba libanese, la Porena lo intervistò per il Corriere del Ticino e Ayad ripeté quanto aveva già confidato ad altre testate. Né fu Giovannone, che non era neanche iscritto alla P2, ad essersi inventato la “pista libanese” perché questa era frutto di un autonomo schema depistante di Ayad a protezione degli autori della strage. E – non dimentichiamolo – Ayad era il numero due di Fatah, il leader dell’OLP più importante dopo Yasser Arafat.
L’aspetto più sconcertante è che questi travisamenti vengano attribuiti, di fatto, a «questo documento» di Matassa-Pelizzaro, che – come si legge in apertura del capitolo sulla “Pista palestinese”, pag. 1776 – meritava (bontà loro) «di essere attentamente analizzato».