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Concluso il processo Aemilia
La corte è in camera di consiglio
Ultimo appello di 20 imputati: “Liberateci da questo incubo”

16/10/2018 –  “La corte si ritira per deliberare”. Con queste parole il presidente del collegio giudicante,  Francesco Maria Caruso,  verso le 14.45 di oggi ha annunciato la conclusione del processo di primo grado Aemilia (in rito ordinario), celebrato contro la ‘ndrangheta a Reggio Emilia in 195 udienze, tre anni e nove mesi dopo il blitz di fine gennaio 2015: la più grande operazione e il più grande processo al Nord contro la ndrangheta, in particolare contro la “costola” reggiana – diventata autonoma nel tempo – del clan cutrese di Nicolino Grande Aracri.

Un quarto d’ora dopo l’annuncio, Caruso e gli altri due membri del collegio, Cristina Beretti e Andrea Rat, hanno varcato con i trolley la soglia della Questura reggiana, dove scriveranno la sentenza per i 148 imputati. I giudici avranno una stanza a testa nei locali di via Dante, dove la sorveglianza sarà massima 24 ore su 24. Mangeranno anche alla mensa della Questura e potranno disporre di una sala per le riunioni. La camera di consiglio dovrebbe durare non meno di due settimane.

Processo Aemilia, il collegio giudicante presieduto da Caruso

Su tutti gli imputati gravano accuse molto pesanti -dal reato di associazione mafiosa, all’usura, l’estorsione e le false fatturazioni- e rischiano nel complesso una quantità enorme di anni di carcere (sono ben 1.712, ben 17 secoli, quelli chiesti in totale dalla dai Pm Mescolini e Ronchi).

Ciò contribuisce a spiegare perché, nell’ultima udienza , una ventina di imputati (sui 148 totali) non ha voluto rinunciare alla possibilità di prendere la parola, per ribadire la propria innocenza dai reati contestati e, soprattutto, la estraneità alla cosca di ‘ndrangheta infiltrata da Cutro in Emilia.

Se alcuni imputati eccellenti dell’inchiesta culminata con gli arresti del gennaio del 2015 sono rimasti in silenzio (come l’imprenditore Omar CostiGianluigi Sarcone, fratello del più alto in grado nella cellula emiliana, Nicolino Sarcone), altri si sono fatti avanti fatti avanti, ribadendo fiducia nell’imparzialita’ dei giudici, raccontando le loro vite spezzate da 4 anni di vicende giudiziarie o confutando le dichiarazioni fatte sul loro conto dei collaboratori di giustizia.

Come nel caso di Luigi Muto, che  secondo il pentito Antonio Valerio sarebbe uno dei quattro nuovi reggenti al comando della consorteria dopo gli arresti, che ha dichiarato: “Io non sono il reggente di nessuna cosca, sono il pilastro solo della mia famiglia. La mia è una famiglia di lavoratori. Sono nato a Reggio Emilia e orgoglioso di vivere qui”. Oppure di Mirco Salsi, imprenditore reggiano presidente fino al 2013 della Reggiana Gourmet, ex vicepresidene della Cna provinciale, che per recuperare un maxi credito da 1,3 milioni dalla faccendiera bresciana Maria Rosa Gelmi (soldi di un affare non andato in porto e svaniti nel nulla) si rivolse tramite l’amico e volto tv reggiano Marco Gibertini  – che gestiva in proprio il program,,a Poke Balle su Telereggio – all’imputato Antonio Silipo.

“La mia colpa- spiega Salsi- è di essermi fidato, di essere stato ingannato da Gibertini e che era mio amico e a cui ho anche prestato dei soldi, ma soprattutto da Gelmi, con cui pensavo di avere un rapporto sentimentale. Non sono un complice ma la vittima di persone malvage che mi hanno portato via salute, anni di risparmi e soprattutto il rapporto con i miei figli”.

Antifona che risuona anche nelle parole dell’imprenditore Giuseppe Vertinelli: “Non sono un membro della ‘ndrangheta, non lo sono mai stato, ho solo commesso degli errori”, mentre Giuliano Debbi (anche lui imprenditore) invoca: “Rivoglio la mia vita”.

Pasquale Brescia, altra figura ritenuta dall’accusa emblematica del mondo economico locale colluso, sceglie invece tra l’altro la linea della contestazione dei  pentiti. Di Antonio Valerio dice: “Nessuno degli imputati può dirsi al sicuro da questo mitomane. Quando ha capito che le cose si mettevano male ha deciso di collaborare e di crearsi il personaggio”. E’ poi la volta dei fratelli Amato, Alfredo e Francesco: “Da quattro anni sono in carcere e fino ad ora la mia colpevolezza non è stata provata. Sono contento che ci sia questo collegio perche’ mi ispira fiducia”, dice il primo. Mentre il secondo si dichiara “delinquente per povertà”, ma non mafioso.

Come pure Salvatore Silipo: “Sono 20 anni che faccio reati ed entro ed esco dal carcere, non sono un angioletto, non faccio recite. Ma i miei reati sono individuali”. Michele Bolognino, che secondo i pubblici ministeri dirigeva gli affari della cosca, si professa solo come un lavoratore e lo stesso fa Alfonso Paolini, considerato il front man addetto alle pubbliche relazioni della consorteria: “La mia vita e’ stata solo lavoro e sport”. Il carabiniere in pensione Mario Cannizzo accusato di estorsione, si discolpa e osserva: “Molti esponenti delle forze dell’ordine, anche di livello più alto del mio,andavano a cena con questi soggetti senza aver consapevolezza. Confido nella vostra serenità di giustizia e di saper distinguere, di togliermi da questo incubo che ha stravolto la vita mia e dei miei familiari”.

 

 

 

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