2/2/2017 – Un cavillo procedurale sgorgato dalla mente dell’avvocato Carlo Taormina, difensore di Giuseppe Iaquinta, è costato il rinvio dell’attesa deposizione al processo Aemilia di Antonella De Miro, oggi prefetto di Palermo ma dal 2009 al 2014 a Reggio Emilia dove ha inaugurato la strategia delle interdittive antimafia contro la penetrazione della ndrangheta nell’economia reale e nei livelli amministrativi.
Arrivata nel pomeriggio Antonella De Miro ha atteso sino alle 18 quando, concluso l’esame del maggiore dei Carabinieri Emanuele Leuzzi, è stata chiamata in aula dal presidente Caruso.
A quel punto Taormina, penalista di grido, si è opposto sostenendo che De Miro non poteva testimoniare in quando indagata per abuso di ufficio e falso ideologico a seguito di ricorso presentato dallo stesso Iaquinta contro un’ interdittiva antimafia. Il collegio giudicante è rimasto un’ora buona in camera di consiglio. Alla fine Caruso ha ammesso la testimonianza, assegnando a De Miro un difensore d’ufficio perla parte relativa Iaquinta. Ma ormai erano le 19, e si è deciso il rinvio. Il prefetto di Palermo tornerà a Reggio dopo il 9 febbraio.
QUO VADIS AEMILIA?
L’ASSOLUZIONE NON CONTA, UN’UDIENZA PER METTERE IN GRATICOLA PAGLIANI
2/2/2017 – Giuseppe Pagliani è stato assolto con formula piena in primo grado – nel rito abbreviato del processo Aemilia – dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, per non aver commesso il fatto. Ancora prima il Riesame aveva demolito le accuse con cui la Dda di Bologna lo aveva ingiustamente incarcerato per 22 giorni. Nondimeno l’avvocato di Arceto, capogruppo di Forza Italia in Comune e in Provincia è finito di nuovo sotto processo nell’udienza di ieri nell’aula bunker del tribunale reggiano, dove è in corso il rito ordinario di Aemilia.
Nella forma è stata la testimonianza di un ufficiale superiore dell’Arma, nella sostanza un nuovo processo irrituale: senza imputato (perché già assolto) e di conseguenza senza nessun difensore in aula che potesse proteggere Pagliani da un attacco imprevisto, avvenuto nel corso della deposizione del maggiore dei carabinieri di Fiorenzuola, Emanuele Leuzzi.
L’ufficiale, su richiesta del pm Mescolini, ha centrato la sua testimonianza proprio nella ricostruzione dei rapporti tra la “consorteria” legate al clan Grande Aracri e lo stesso Pagliani, con la ripetizione puntigliosa in aula delle intercettazioni in gran parte largamente note, alcune delle quali fatte ascoltare in audio.
Si comincia dalla fatidica telefonata di Alfonso Paolini, già “camerata” di Pagliani in An, che lo invita all’incontro del 2 marzo 2012 nell’ufficio di Nicolino Sarcone: ma lì non c’è solo la “consorteria”. Arriva anche l’ingegnere Salvatore Salerno che intrattiene affari con i Sarcone, e potrebbe essere un antagonista politico dell’avvocato di Arceto: così almeno sospetta il presidente Caruso, ma il maggiore Leuzzi risponde che gli investigatori ì non sono riusciti a dargli una collocazione politica.
Da lì, in una galoppata di ore tra intercettazioni telefoniche e ambientali, si arriva alla famigerata cena degli Antichi Sapori, il ristorante di Pasquale Brescia a Villa Gaida, del 21 marzo.
Nel corso della deposizione il maggiore afferma con disinvoltura che Pagliani avrebbe mentito due o tre volte. Ad esempio quando ha detto di essere arrivato con un’ora di ritardo alla cena, perchè – invitato di riguardo insieme all’ex consigliere comunale Rocco Gualtieri, all’avvocato Caterina Arcuri, l’avvocato Sarzi Amadè e altri ancora – alle 20,49 era seduto a tavola con Paolini, Diletto, Sarcone e Brescia. Ma l’appuntamento era per le 20, quindi Pagliani in ritardo lo era davvero.
Il teste ha fatto ascoltare in aula diverse intercettazioni: una francamente incomprensibile nella quale, secondo il filtraggio fatto dagli esperti dei carabinieri, Pagliani avrebbe detto che «Bini è l’uomo della Masini, bisogna dare battaglia contro di lui».
L’altra è quella celeberrima di mezzanotte e 26 minuti con l’amica Sonia, in cui parla della “curetta” da fare alla presidente della provincia Masini, con la quale è in scontro frontale da tempo.
Dall’ascolto emerge chiaramente che Pagliani parla di politica, e ignora di essere finito a tavola con un’accolita di ndranghetisti o presunti tali. Tanto che a un certo punto afferma: «Ho saputo cose da processo, mi hanno aspettato per raccontarmi tutta questa roba». Roba che scotta: «Non mi lasciavano andare via. Ho ascoltato testimonianze pazzesche: le cooperative rosse sono corrotte, una cosa schifosa. Ho saputo più cose stasera che in dieci anni. Vogliono usare il partito (il Pdl) contro la Masini e la sinistra».
Per il maggiore Leuzzi sarebbe la conferma che la campagna di Pagliani contro Sonia Masini era mossa dalla ndrangheta: ma le sentenze, e non solo i fatti, hanno dimostrato il contrario. Perché la campagna di opposizione alla Masini era cominciata molto prima, almeno dalla vicenda dell’appalto Global Service scoperchiata non da Pagliani bensì da un giornalista inequivocabilmente schierato contro la mafia.
Ma ieri, al processo Aemilia, è come se la Dda avesse cancellato le sentenze e rimesso alla sbarra Pagliani, in un processo di fatto con procedura specialissima, nel quale un cittadino non ha neppure il diritto di difendersi.
Non a caso verso le 13 un avvocato ha sollevato un’eccezione, mentre i detenuti rumoreggiavano: «Presidente, qui andiamo troppo oltre, si danno giudizi e valutazioni. Atteniamoci ai capi d’imputazione». L’accusa ha continuato ad andare per la sua strada.