3/3/2016 – Il caso di Brescello è un “tangibile esempio” di come la ndrangheta agisca in Emilia. Lo scrive il procuratore capo Franco Roberti nella relazione annuale della Direzione Nazionale Antimafia: al capitolo sul distretto di Bologna, l’Emilia viene drammaticamente dipinta come una “terra di ndrangheta” in cui le cosche “hanno avvelenato i gangli vitali dell’economia, della politica e delle istituzioni”.
La relazione presentata ieri riserva parole di una durezza senza precedenti a Reggio e al territorio emiliano, paragonato a quello calabrese per l’entità delle infiltrazioni mafiose. Ma l’atto d’accusa riguarda anche la politica, la società civile e il tessuto imprenditoriale: “La regione poteva definirsi terra di ndrangheta da almeno un decennio: ma la sottovalutazione e il silenzio hanno rallentato vistosamente la presa di coscienza, in un clima di omertà paragonabile e forse anche peggiore a quello del sud.
Per la Dna “il tessuto socio economico e la gestione della cosa pubblica in Emilia sono fortemente condizionati dai rapporti tra la politica e le organizzazioni mafiose”. Parole inaudite, persino inimmaginabili per l’Emilia rossa un tempo guardata con ammirazione per il suo buon governo. E’ il crollo definitivo di un mito: il “gran pezzo dell’Emilia” non esiste più, la mafia e gli emiliani lo hanno seppellito senza funerali.
Scrive la Dna: “La regione, fino a qualche anno fa esempio di buona amministrazione, ha subito una profonda trasformazione e si presenta con i caratteri tipici dei territori infestati dalla cultura mafiosa, dove alla crescita delle attività riconducibili alla ndrangheta non ha corrisposto “un numero altrettanto apprezzabile di denunce da parte delle vittime”.
Ruberti parla di “una vera e propria aggressione all’ordine democratico”, che è riuscita a stravolgere la reputazione di quella che, ormai, potremmo dire, una volta, era orgogliosamente indicata come la Regione-modello e invidiata per l’elevato livello medio di vita dei suoi abitanti”.
Ma se si parla di ordine democratico, bisogna chiedersi quanto abbia influito in tale situazione un sistema politico bloccato, senza alternanza da 70 anni e che giocoforza ha generato una classe politica di nominati. Se a spalancare le porte alla ‘ndrangheta non siano state proprio le falle del sistema democratico.
Cartina al tornasole di tutto questo è Brescello, dove la commissione per l’accesso ha raccolto materiale per sei mesi e il sindaco Marcello Coffrini si è dimesso solo quando era apparso molto probabile lo scioglimento del consiglio comunale per inquinamento mafioso. A Brescello – nota la Dna – il 10% della popolazione è di origine cutrese e proprio la vicinanza tra l’amministrazione comunale e la famiglia Grande Aracri ha determinato le condizione per l’invio della commissione di accesso. “Situazione allarmante ma non del tutto nuova – si legge nella relazione – i cui primi tangibili segnali erano stati colti da alcune attività investigative di anni fa in grado di ricostruire l’esistenza e l’operatività di una propaggine della ndrangheta, dotata di autonomia decisionale e di forza propria, che operava da anni nel territorio emiliano”.
Ma l’analisi della Direzione nazionale antimafia suona come una drammatica condanna per l’intero sistema politico e gli intrecci di potere dominanti in Emilia. Vengono ripresi i temi dell’inchiesta Aemilia: “Il radicamento nel territorio di rappresentanti del sodalizio in giacca e cravatta, il sostegno di una parte della stampa locale, il colpevole silenzio delle istituzioni, hanno determinato una vera e propria trasformazione sociale e del tessuto economico e imprenditoriale”.
Nondimeno nell’ultimo periodo, anche grazie all’operazione Aemilia, “qualcosa è cambiato; la società civile si è dimostrata più matura e grazie alla diffusione di informazioni sulla misura della insinuazione nel tessuto economico e sociale raggiunto dall’ndrangheta, ha mutato il suo atteggiamento resistente e diffidente creando le condizioni per un graduale recupero del controllo del territorio”.
Purtroppo la relazione dimentica ( e qualcuno dovrebbe avvenire Roberti) di rendere l’onore dovuto a coloro che nelle istituzioni, nella politica, nell’economia e anche nei media, pochi o tanti che fossero, hanno fatto il loro dovere, andando controcorrente e denunciando le infiltrazioni mafiose sino a pagare anche prezzi notevoli: i nomi si sanno, eppure stranamente sono finiti nel dimenticatoio, ora che tutti sono antimafia. Ma forse era inevitabile, tale “distrazione”, visto che ancora pochi anni fa fior di magistrati affermavano che in fondo a Reggio e in Emilia le mafie non rappresentavano un grosso problema.
Sfangati
04/03/2016 alle 08:53
Grazie ai Giornalisti con la G maiuscola.
😉