di Pierluigi Ghiggini
22/7/2014 – All’alba del 22 luglio di settant’anni fa ad Adelano di Zeri, nel giogo appenninico dove si fondono Toscana, Emilia e Liguria, il comandante partigiano Facio cadde fucilato su ordine degli altri comandanti comunisti della Lunigiana, riuniti in un tribunale politico.
Davanti ai suoi occhi, negli ultimi istanti, si stagliava il profilo dei monti dell’Alta Lunigiana che tanto somigliano a quelle del suo paese, Sant’Agata d’Esaro, nella Calabria cosentina, ai primi contrafforti del parco del Pollino.
Così nel suo ultimo volo Dante Castellucci, nome di battaglia Facio, ebbe certo l’illusione di tornare fra le braccia di sua mamma, a Sant’Agata, che ancora lo aspettava trepidante, e pregava perché la sorte non fosse cattiva con lui.
Solo una ventina d’anni più tardi la madre fu chiamata a Cosenza per la consegna solenne davanti a un picchetto d’onore della medaglia d’argento al valor militare riconosciuta a quel suo figlio, eroe partigiano comunista, ammazzato con la menzogna e il tradimento da altri comandanti comunisti.
Ma anche quella medaglia era intinta nel veleno: la sua motivazione falsa (“caduto in combattimento contro soverchianti forze nemiche”) servì a coprire i fatti e ad assegnare un salvacondotto politico permanente agli assassini di Facio. È vero, aveva combattuto contro soverchianti forze nemiche, però aveva sempre vinto lui.
Facio era l’eroe della battaglia del Lago Santo e prima ancora era stato un combattente di punta del gruppo Cervi, braccio destro di Aldo Cervi ai Campi Rossi, catturato con i sette fratelli in quella infame notte di fine novembre del 1943.
I fratelli finirono mal carcere dei Servi, e lui che passava per francesi, perchè in Francia era cresciuto, fu mandato con gli stranieri a Parma, e lì i tedeschi in quattro e quattr’otto lo condannarono a morte: riuscì a fuggire appena in tempo con l’aiuto di prigionieri russi e inglesi, e rientrò subito nel reggiano per organizzare la liberazione dei Cervi dal carcere. Ma era troppo tardi: il piano andò a gambe all’aria a causa del delitto Onfiani, quel delitto dei Gap che innescò la fucilazione dei sette fratelli.
Pochi giorni più tardi un’altra condanna a morte raggiunse Dante Castellucci: non dai tedeschi questa volta, ma dal vertice militare del Partito comunista. Fu Ottavo Morgotti a portare l’ordine a Otello Sarzi Madidini, il quale si guardò bene dall’eseguirlo: era lui ad aver portato Dante nella banda
Cervi, e sapeva sapeva bene che il “triangolo sportivo” gli ordinava di compiere un’infamia.
Volevano far fuori il Calabrese perché sapeva troppo. Sapeva chi aveva tradito i Cervi nella notte in cui fu pianificato il loro arresto nella caserma della milizia di Reggio. Sapeva del progetto volto a isolare e rendere inoffensiva la banda di Campegine, troppo autonoma e non allineata alla legge del partito.
Fu Luigi Porcari, segretario del Pci di Parma, a levarlo dai guai mandandolo a combattere in Lunigiana. Ma le sue battaglie, il coraggio, la fama di difensore dei deboli non bastarono a salvarlo. La sentenza di morte di Reggio Emilia lo inseguì inesorabile in montagna sino a colpirlo con le pallottole del tradimento all’alba del 22 luglio 1944, ad Adelano di Zeri.
Per decenni la storia e la figura di Facio rimasero volutamente in ombra. Verità manipolate e taciute essenzialmente per coprire il fango di cui, in quella storia, si era coperta la Resistenza comunista a Reggio e in montagna. Operazione riuscita, nonostante la presenza di Laura Seghettini, la sua fidanzata per sempre, una delle poche donne comandante di distaccamento, che ha dedicato la sua vita a tenere alta la memoria di Facio: una spina nel fianco costante per i seppellitori della verità.
Non sono stati gli storici e nemmeno gli istituti resistenziali, ma un’inchiesta giornalistica a puntate nata quasi per caso più di vent’anni fa, e basata su ricerche interamente autofinanziate, a togliere la vicenda dall’oblio e a rivelarne i primi sporchi retroscena (in primis l’ambigua figura di Antonio Cabrelli) anche con l’aiuto della medaglia d’argento Paolino Ranieri, che ea stato il primo a indagare in montagna, su mandato del partito di Spezia, intorno alla fucilazione di Facio.
Ranieri fornì i documenti attestanti, fra l’altro, la condanna a morte pronunciata contro Castellucci dal “triangolo sportivo”, il comando militare del Pci di Reggio. Fu sempre Lunigiana La Sera a pubblicare, in contemporanea con la “Storia di campagna” di Liano Fanti, una clamorosa intervista in cui Otello Sarzi raccontò come finse per giorni di inseguire Dante Castellucci, condannato a morte dal partito.
Quegli articoli innescarono una reazione a catena persino imprevedibile. Negli anni le ricerche sono continuate e un numero crescente di persone ha fatto della verità su Facio quasi una ragione di vita. E’ stato messo a fuoco il suo ruolo di primo piano nel gruppo Cervi, tuttora misconosciuto, grazie al ritrovamento e alla pubblicazione da parte di Luca Tadolini dei verbali degli interrogatori dei sette fratelli e di Quarto Camurri.
Il libro di Spartaco Capogreco “Il piombo e l’argento” ha consegnato Facio alla grande storia, generando un movimento mai visto prima e costringendo a prendere posizione anche chi avrebbe voluto tacere. Dario Fertilio ne “L’ultima notte dei fratelli Cervi” è stato il primo a scrivere del delitto di Adelano come esecuzione della sentenza di Reggio Emilia.
Oggi Facio è una delle figure partigiane più amate dai giovani. Del resto, è stato detto giustamente, Dante Castellucci riassume in sè le dimensioni dell’eroe classico e romantico: il combattente coraggioso e l’intellettuale creativo, il temerario e lo stratega, la bellezza, la forza, l’abnegazione, il difensore dei deboli e la vittima del tradimento dei meschini.
Ma non tutta la verità è scritta, e intorno alla memoria di Facio continua la congiura del silenzio, perchè si sa bene che ci sono limiti da non valicare. Ancora oggi non si può mettere in discussione la storia del Pci.
Perché Facio porta dritti alla vicenda Cervi, al doppiogiochista, all’escalation di delitti dei Gap che fermarono il blitz in carcere organizzato dal Calabrese e causarono infine la terribile rappresaglia sui sette fratelli
e su Quarto Camurri.
È la ragione per cui a Reggio nessuno in questi giorni ha parlato di Facio. Vedremo il 25 alla “Pastasciutta antifascita a Casa Cervi.
Invece a Sarzana stasera va in scena una pièce della Compagni degli Evasi con prefazione dello storico Paolo Pezzino: si intitola “Cuore d’oro, silenzio d’argento”, ricalcando il titolo del libro di Capogreco (col quale però la sceneggiatura non ha niente a che vedere).
Gli autori hanno scelto di non addentrarsi nel perché del delitto, probabilmente per non pestare i piedi all’Anpi, ma almeno a Sarzana qualcuno Facio lo ricorda. Sara ricordato anche a San Terenzo, al parco Shelley, il 4 agosto, con un’altra rappresentazione teatrale.
Invece a Reggio va in scena, ancora una volta, il silenzio. Silenzio a Istoreco e a casa Cervi. E silenzio a Roma, dove la petizione per il riconoscimento della medaglia d’oro a Dante Castellucci e la correzione della motivazione bugiarda appesa all’argento di tanti anni fa, resta chiusa in un cassetto del Quirinale. Però Facio vive, dopo settant’anni, ed è fra gli immortali. Il vero oblio è calato sui suoi assassini e sui guardiani della menzogna.
mario
22/07/2014 alle 17:24
E’ storia se è verità , altrimenti resta menzogna che il potere vuole far passare per storia. Un paese può ricuperare se si affronta , anche se amara, la verità storica dei fatti. Bravo Ghiggini ed il tuo coraggio di giornalista libero, come deve essere un vero giornalista( lo diceva Montanelli).
Mario peoni
07/08/2014 alle 14:10
Veramente un bel articolo,complimenti Pierluigi.